MUSICA e TEATRO


Carlo Goldoni

    1. DE GUSTIBUS NON EST DISPUTANDUM

Dramma Giocoso per Musica da rappresentarsi nel Teatro Tron di S. Cassiano il Carnovale dell'Anno 1754.


      1. L'AUTORE A CHI LEGGE

LETTOR carissimo, se uno tu sei di quegli a' quali abbia io protestato di non volere quest'anno, e forse mai più, comporre de' simili Drammi Buffi, voglio anche communicarti la ragione che ad astenermene mi obbligava, ed i motivi che mi hanno fatto dal mio proponimento discendere. Il Dramma serio per Musica, come tu saprai, è un genere di teatrale componimento di sua natura imperfetto, non potendosi osservare in esso veruna di quelle regole che sono alla Tragedia prescritte. Molto più imperfetto il Dramma Buffo esser dee, perché cercandosi dagli Scrittori di tai barzellette servire più alla Musica che a sé medesimi, e fondando o nel ridicolo o nello spettacolo la speranza della riuscita, non badano seriamente alla condotta, ai caratteri, all'intreccio, alla verità, come in una Commedia buona dovrebbe farsi. Questa è poi la ragione per cui cotai libretti, che si dicono Buffi, rarissime volte incontrano. Io ne ho fatti parecchi, che il Tevernini, Libraio in Merceria, alla Provvidenza, ha potuto stamparne quattro Tometti in 12. - Di questi alcuni hanno avuto fortuna grande, altri mediocre ed alcuni altri l'hanno sofferta pessima, e questi forse saranno i men cattivi e più regolati de' primi. L'esito dipende talora dalla musica, per lo più dagli Attori, e sovente ancora dalle decorazioni. Il Popolo decide a seconda dell'esito; se l'Opera è a terra, il libro è pessimo. Se è un poco serio, è cattivo perché non fa ridere; se è troppo ridicolo, è cattivo perché non vi è nobiltà. Volea pure imparare il modo di contentare l'Universale anche in questo genere di composizioni, ma in sei anni che la necessità e gli impieghi mi costringono a doverne fare, non ho veduto alcun libro straniero che abbia avuto fortuna e che potesse insegnarmi. Disperando dunque di poter far meglio e di ottenere né lode, né compatimento, avea risoluto di tralasciare un esercizio sì disgustoso, reso anche peggiore dalle fatiche che porta seco l'impegno della direzione al Teatro. Quest'anno in cui circondato mi trovo dalle più pesanti faccende, al mondo bastantemente palesi, era per me opportuno per tale risoluzione; tuttavolta non siamo sempre padroni di noi medesimi, e l'uomo dee tutto sagrificare al dovere, alla gratitudine, all'onestà. Un comando di persona autorevole, protettrice, benefica e generosa, mi ha costretto a dover fare anche questo, e non è la protesta mia quella solita degli scrittori, ma pur troppo quegli che vanno a caccia di novità, l'hanno saputo anche prima che io mi determinassi di farlo.
Ho procurato di scriverlo in una maniera che corrisponder potesse al merito ed al buon gusto di chi mi ha onorato di comandarmi di scrivere, ma non ho potuto staccarmi affatto dal consueto sistema. Se piacerà ad alcuni, siccome io spero, e dispiacerà ad altri, come son certo, si verificherà il titolo dell'operetta: De gustibus non est disputandum.
Non sono il primo io che ad una Commedia italiana abbia dato il titolo Latino, avendone veduta un'altra, ancora più stranamente intitolata: Sine nomine.
Auguro a questa operetta la fortuna dell'altra mia che il Mondo della Luna ha per titolo, non per il felicissimo incontro suo sulle scene, ma per essere stata lodata da un peregrino ingegno, che sull'argomento medesimo ha dato in luce il più bel poemetto del mondo. Bramerei conoscere questo valoroso Scrittore per ringraziarlo dell'onore che egli a me fa ed alle opere mie, per seco Lui consolarmi del bellissimo estro suo e della sua erudizione; e per animarlo a produrre il seguito di un'opera così graziosa; poiché stando egli dietro al quadro ad udire, sentirà gli uomini di senno a lodarla, e non baderà agl'invidiosi, agl'ignoranti, ai critici, siccome pacificamente soglio fare ancor io. Vivi felice. 
PERSONAGGI

ERMINIA nipote di Artimisia.
La Sig. Maddalena Caselli, detta l'Inglesina.
CELINDO sposo promesso ad Erminia.
La Sig. Rosa Venturelli, detta la Carbonerina.
ARTIMISIA baronessa del Fiore, vedova.
La Sig. Agata Ricci.
IL CAVALIERE di Roccaforte.
Il Sig. Michel Angelo Potenza.
DON PACCHIONE
Il Sig. Gasparo Barozzi.
IL CONTE RAMERINO
La Sig. Giovanna Potenza.
ROSALBA cugina della baronessa.
La Sig. Lavinia Albergoni.

La Scena si rappresenta in un Palazzo in villa della baronessa Artimisia.


      1. MUTAZIONI DI SCENE

ATTO PRIMO
Appartamenti.
Camera.

ATTO SECONDO
Giardino.
Camera.
Luogo delizioso.

ATTO TERZO
Campagna. Camera.
Sala illuminata.

Le suddette Scene sono d'invenzione del sig. Pietro Zampieri.

      1. BALLERINI
La Sig. Anna Masese Casoli.
Al servizio di S. A. Prencipe Infante Don Flippo Duca di Parma e Piacenza.
Il Sig. Gasparo Caccioni.
La Sig. Elisabetta Ferraresi.
Il Sig. Baldassare Albuzio.
La Sig. Anna Luchi.
Il Sig. Vicenza Monari.
La Sig. N. N.
Il Sig. N. N.

Inventore e Direttore de' Balli il Sig. Gaspero Caccioni,
Maestro del Regio Ducal Collegio de' Nobili in Parma.


    1. ATTO PRIMO



SCENA PRIMA

Appartamenti.

Erminia e Celindo, sedendo vicini l'uno all'altro in fondo della scena.
Rosalba e il Conte Ramerino, ad un tavolino, giocando fra di loro alle carte.
Il Cav. di Roccaforte, ad un altro tavolino, scrivendo.
Don Pacchione, sedendo da un altro lato, bevendo la cioccolata.
Li sei Personaggi suddetti, ciascheduno stando al loro posto, cantano
li seguenti versi, mostrando averli ciascuno in un foglio a parte.
Poi la baronessa Artimisia


Il mondo è bel, perch'è di vari umori.
Vari sono degli uomini i capricci:
A chi piacciono l'armi, a chi gli amori,
A chi piaccion le torte, a chi i pasticci.
De' gusti disputar cosa è fallace;
Non è bel quel ch'e bel, ma quel che piace.

ART.
Bravi, me ne rallegro.
Godo che in casa mia
La giornata si passi in allegria.
Che si canta di bello?
CAV.
Alcuni versi
Da me stesso composti in questo punto.
Veggendo che ciascuno
Variamente s'impiega e si ricrea,
Col faceto mio stil così dicea:
De' gusti disputar cosa è fallace;
Non è bel quel ch'è bel, ma quel che piace.
ART.
Questo l'accordo anch'io.
Ciascheduno ha il suo gusto. Io pure ho il mio.
Ecco, la mia nipote
Col suo futuro sposo
Godono nel parlar d'amor, di foco.
Mia cugina ed il conte amano il gioco.
Voi, cavaliere, amate
La dolce poesia,
Il piacer, l'allegria;
Ed il signor Pacchione, il poverino,
Ama i ragù, la cioccolata e il vino.
PACC.
E voi che cosa amate?
ART.
Anche il mio genio
Più d'una cosa che d'un'altra è amico.
Ho il mio gusto ancor io, ma non lo dico.
CAV.
Dunque m'insuperbisco
Di questi versi miei. Ciascun si vanti
Del suo gusto parzial, li legga e canti. (dà un foglio ad Artimisia)
(Tutti s'alzano, ripeton la canzone suddetta; indi partono tutti, fuorché Artimisia e Rosalba)



SCENA SECONDA

Artimisia e Rosalba

ART.
Voi, cugina garbata,
Vi dilettate di giocar. Badate
Che dovrete pagar, se perderete;
Poiché, se nol sapete,
Gli uomini han ritrovato,
Quando giocan con noi, la bella usanza
Che il non farsi pagar sia un'increanza.
ROS.
Credetemi, non soglio
Né per vizio giocar, né per diletto.
Non so dir per qual cosa io senta affetto.
Tutto mi piace, e niente mi dà pena.
Faccio quel che di far mi vien promosso,
E contento ciascun, se farlo io posso.
ART.
Bravissima! in tal guisa
Gradendo tutti, e non negando mai,
Voi vi farete degli amici assai.
ROS.
Questo è il mio gusto.
ART.
È il mio tutto all'opposto.
A voi ve lo confido:
Godo a far disperare, e me ne rido.
Fingo d'esser gelosa, e non lo sono:
Dar altrui gelosia mi dà diletto.
Chi ha per me dell'affetto,
Ho piacere talor che si disgusti;
E se pianger lo vedo, è il re dei gusti.
ROS.
Io no; soffrir non posso
Che un amante sospiri; e se 'l vedessi
Una lacrima trar sugli occhi miei,
Non so dir, non so dir quel ch'io farei.

Ho un cuor sì tenero,
Sì dolce ho l'animo,
Che tutti gli uomini
Mi fan pietà.
Quando sospirano,
Quando mi pregano,
No, non so fingere
La crudeltà. (parte)



SCENA TERZA

Artimisia, poi don Pacchione

ART.
Misera semplicetta!
Del tuo tenero cuor ti pentirai.
In altri proverai
La crudeltà che nel tuo sen non cova.
Fede, sincerità più non si trova.
Io che lo so, m'ingegno
Far quel che gli altri fanno,
E ad ogni ingannator pronto ho un inganno.
Godo che in questa villa
Vengano a divertirmi
Le congiunte, gli amici e i spasimati;
Ma non avrei divertimento alcuno,
Senza farli arrabbiare ad uno ad uno.
PACC.
Madama, sentirete
Questa mattina un piatto
Eccellente, esquisito.
ART.
E chi l'ha fatto?
PACC.
Io, io colle mie mani;
Fattomi preparar pentole e fuoco,
Sono andato in cucina, e ho fatto il cuoco.
Un pezzo di vitello
Che ha tre dita di grasso,
Cotto con le tartufole e il presciutto:
Oh vita mia! me lo mangerei tutto.
ART.
Voi, signor don Pacchione,
Siete, per quel che sento, un bel mangione.
PACC.
Può darsi in questo mondo,
Oltre quel del mangiar, gusto migliore?
ART.
Sì, può darsi.
PACC.
Qual è?
ART.
Far all'amore.
PACC.
L'amore è un bel piacere,
Non lo nego, lo so; godo star presso
D'una donna gentil, vezzosa, amena;
Ma mi piace di farlo a pancia piena.
ART.
Dunque invan mi lusingo
Che per me sia venuto a favorirmi
Don Pacchione gentil. Per lui nel cuore,
Lo dirò con rossor, provo il martello,
Ed ei pensa al prosciutto ed al vitello?
PACC.
Voi, madama, per me?...
ART.
Sì; cieco tanto
Siete per non vederlo? Ad una donna
Vedova, qual io son, non isconviene
Palesar l'amor suo, dir le sue pene.
PACC.
Ma voi del cavaliere
Invaghita non siete?
ART.
Ah no; mi piace
In voi l'allegro viso,
Il pingue corpo e la robusta schiena.
Ma più di me v'alletterà una cena.
PACC.
Madama, se credessi
Che diceste davver...
ART.
Ve l'assicuro.
(S'altro lume non hai, resti all'oscuro). (da sé)
PACC.
Dunque...
ART.
Dunque non resta
Che assicurarmi almen, per mio decoro,
Che gradite il mio amor.
PACC.
Ah si, v'adoro.
ART.
Qual sicurtà mi date?
PACC.
Chiedete e comandate.
ART.
Ecco, comando e chiedo
Che v'asteniate in faccia mia dall'uso
Di soverchio mangiar. Scarso alimento
All'amante bastar suol per usanza;
Sia l'amor vostro cibo, e la speranza.
PACC.
Madama, io morirò.
ART.
Morir, piuttosto
Che all'amante spiacer, comanda amore.
PACC.
(Quel prezioso vitel mi sta sul cuore). (da sé)
ART.
Ben; che dite? Poss'io
Sperar nel vostro amor? Vile cotanto
Sarete voi di preferir la gola
Al più tenero amor?
PACC.
No, vi prometto...
Arder costantemente al vostro foco.
ART.
E giurate?
PACC.
Che mai?
ART.
Di mangiar poco.
PACC.
Cospetto!
ART.
Senza questo,
È inutile il giurar, vano l'affetto.
Lo promettete voi?
PACC.
Sì, lo prometto.
ART.
Poco alfine, signor, vi domandai.
PACC.
Chiedeste poco, ed io promisi assai.

Ventre mio, non v'è più festa;
Ti prepara a digiunar.
Oh che dura legge è questa,
Far l'amore, e non mangiar!
Quegli occhietti - vezzosetti
Ponno il cuore consolar.
Ma i capponi, - ma i piccioni,
Ventre mio, s'han da lasciar!
Oh che dura legge è questa,
Far l'amore, e non mangiar! (parte)



SCENA QUARTA

Artimisia, poi il Cavaliere

ART.
Ecco un gusto esquisito:
Far patir l'appetito a un mangiatore,
Far che trionfi della gola amore.
Nulla di lui mi cal. Sol nel mio petto
Qualche tenero affetto
Pel cavalier di Roccaforte io sento,
Ma ho piacere anche a lui di dar tormento.
Eccolo, è allegro in viso. Signor no,
Non mi piace così. Se mi vuol bene,
Dee soffrire per me tormenti e pene.
CAV.
Idolo del cuor mio...
ART.
Che bella grazia!
Che parole affettate!
Idolo del cuor mio! Voi m'annoiate.
CAV.
Questa espression d'amore
M'è venuta dal cuore. Ah, lo sapete
Se il mio labbro e sincero,
Se v'adoro, mio ben...
ART.
No, non è vero.

CAV.
Cielo, tu che mi vedi,
Aria, tu che m'ascolti,
Terra, che mi sostieni,
Testimoni del ver della mia fé,
Alla tiranna amabile
Ditelo voi per me.
ART.
Marmi, che sordi siete,
Travi, che non vedete,
Quadri, che non parlate,
Collo spirto vital che in voi non è,
S'è un amante ridicolo,
Ditelo voi per me.

CAV.
Oimè, come cangiaste
In poche ore, crudel, sensi e favella!
Siete voi Artimisia?
ART.
Sì, son quella.
CAV.
No, che quella non siete.
Uno spirto maligno,
Di quei che son per l'aria condannati,
D'atomi conglobati
Una spoglia fallace han colorita;
Un silfo menzognero
D'Artimisia le vesti usurpa e ingombra.
Artimisia non sei.
ART.
Chi sono?
CAV.
Un'ombra.
ART.
Menti; ma tu piuttosto
Uno spettro sarai; stammi discosto.
Un demone d'Averno,
Condensato il vapor di luogo immondo,
Sotto spoglia viril venuto è al mondo.
Che si nasconde in te veggo pur troppo
Farfarello ribaldo, o il diavol zoppo.
CAV.
Ah no; ben lo ravviso,
Non può in sì dolce riso
Una larva celarsi. I tuoi begli occhi
Col loro fume alterno
Spiran fuoco, egli e ver, ma non d'inferno.
ART.
E tu che nel mio seno
Il foco hai raffreddato,
Uno spirto sarai freddo, agghiacciato.
CAV.
Madama, in confidenza,
Che novitade è questa?
ART.
Esaminate
Voi stesso, e lo saprete.
CAV.
Se esamino il cuor mio,
Colpa alcuna non ha.
ART.
(Lo credo anch'io). (da sé)
CAV.
Ditemi, per pietà...
ART.
Voi non m'amate.
CAV.
Stelle! Per qual ragion dite voi questo?
ART.
Perché un vero amator deve esser mesto.
Voi ridete con tutti,
Fate lo spiritoso,
Il bello ed il vezzoso:
Componete canzoni,
Promovete lo spasso e l'allegria.
Dee un amante affettar malinconia.

Non curo un galante
Che a tutte fa il bello:
Il cuor dell'amante
Lo voglio per me.
I sguardi, gli accenti,
L'affetto, la fede,
Quel braccio, quel piede,
Quel labbro, quegli occhi,
Nessuno mi tocchi,
Li voglio per me.
Risetti, - scherzetti,
Giochetti, - balletti
Non s'hanno da fare:
Vuò tutto per me. (parte)




SCENA QUINTA

Il Cavaliere, poi Erminia e Celindo

CAV.
Oh genio stravagante!
Uno spirto brillante,
Un costume vivace
È pur quel che diletta e quel che piace.
E Artimisia mi vuole
Mesto, tristo, languente, addolorato?
Oh di donna gentil gusto sguaiato!
Come è possibil mai
Che un uom del mio costume,
Promotor de' piaceri e dei diletti,
Trattenga il riso e la mestizia affetti?
Farlo mi proverò.
Ma, cospetto di Bacco! io creperò.
CEL.
Cavaliere, di voi
Ora andavamo in traccia.
CAV.
Comandate.
ERM.
Perché turbato in faccia?
CEL.
Qualche mal vi è accaduto?
Non vi ho mesto così mai più veduto.
CAV.
Nulla, nulla... pensavo...
A certi conti della mia famiglia.
(M'è venuta in pensiero
Cosa che mi può far mesto davvero). (da sé)
CEL.
D'uopo abbiamo di voi. Poeta amico,
Sui vicini sponsali
E d'Erminia e di me, versi ha formati
D'uno stile bizzarro e inusitati.
Risponder si vorrebbe ai carmi suoi:
Ecco, amico, il perché si vien da voi.
CAV.
Versi... versi... Son belli?
ERM.
Anzi bellissimi.
CAV.
Lasciate ch'io li veda.
(Artimisia non c'è). (da sé)
CEL.
Eccoli.
CAV.
(Parmi
D'avere il fuoco addosso.
Leggerli non vorrei... Ma far nol posso). (da sé)
ERM.
Ammirate lo stil.
CEL.
Stile che invero
Al Berni stesso in leggiadria non cede.
CAV.
Leggiamoli. (Artimisia ora non vede). (da sé)
Se d'un paio di nozze, Amor, sei vago...
Che bel verso! Mi piace.



SCENA SESTA

Artimisia e detti.

ART.
(Il cavaliere
Legge, e ride; sentiamo).
CAV.
Tendi l'arco fatale,
Che ferisce talor senza far male.
Oh benissimo detto!
ART.
(Ride, giubila, e gode. Oh maladetto!) (da sé)
CEL.
Seguite.
CAV.
Oh che piacer!
ERM.
Sentite il resto.
CAV.
Gusto non ebbi mai maggior di questo.
Amor, farai così...
ART.
Che di bello si legge?
CAV.
(Eccola qui). (da sé)
ART.
Compatite se anch'io vengo ed ascolto;
Veggo ridente in volto
Il cavalier vezzoso;
Qualche cosa sarà di portentoso.
CAV.
(Il rimprovero intendo). (da sé)
ERM.
È un madrigale
Fatto per noi.
CEL.
Non ha in bellezza eguale.
ART.
E il cavalier gentile
Gode del vago stile, e brilla, e ride.
Me ne rallegro assai.
CAV.
(Costei m'uccide). (da sé)
ART.
Via, leggete.
CAV.
Signora...
Amico, perdonate,
Leggere più non posso.
ART.
Eh, seguitate.
Ma se forse per me vi trattenete,
Se vi do soggezion, parto; leggete.
CAV.
(Mi tormenta). (da sé)
CEL.
Su via,
Seguite i versi. Or sentirete il buono.
CAV.
(Fra il diletto e il timor confuso io sono).
È partita; leggiamo.
ERM.
Da capo.
CAV.
Sì, da capo principiamo.
Se d'un paio di nozze, Amor, sei vago...
Eccola lì.
CEL.
Che avete?
ERM.
Leggere non volete?
CAV.
Sono fra il sì e il no.
(È partita Artimisia). Io leggerò.

Tendi l'arco fatale...
Non posso, mi vien male,
Non posso legger più.
L'arco d'Amor fatale
Ferisce e non fa male.
Che stile! Che concetti!
Che versi benedetti!
Mi fanno giubilar.
Amor... colei mi vede.
Lo sleal... colei mi sente.
Non posso seguitar. (parte)



SCENA SETTIMA

Erminia, Celindo ed Artimisia

CEL.
Che stravaganza e questa?
ERM.
Io non la so capir.
ART.
(Che bello spasso!
Che piacer, che diletto!) (da sé)
CEL.
Vedeste il poveretto
Che parte delirando?
ERM.
Il cavaliere,
Non so dire perché, non par più quello.
ART.
Nol sapete? Il meschin perso ha il cervello.
CEL.
È pazzo il cavalier?
ART.
Nol sapevate? (a Celindo)
CEL.
Mi dispiace per voi, perché l'amate.
ART.
Ah Celindo, Celindo,
Non è vero ch'io l'ami. Anzi per questo
Il meschino delira.
Questo mio cuor sospira...
Basta, non vuò dir nulla.
Non vuò far disperar questa fanciulla.
ERM.
Come, signora zia?
ART.
Niente, nipote.
Il ciel vi benedica.
Vi son parente e amica.
Invidio il vostro ben, ma non usurpo
Uno sposo gentile ad una sposa.
(Ho piacere che sia di me gelosa). (da sé, e parte)



SCENA OTTAVA

Erminia e Celindo

CEL.
Non intendo che dica.
ERM.
Ah traditore!
Io l'intendo, lo so; lo sa il mio cuore.
CEL.
Erminia, non è ver...
ERM.
Se ver non fosse
Che all'ingrata mia zia serbaste affetto,
In faccia mia non ardirebbe anch'essa
Svelare il foco suo.
CEL.
Ma ve lo giuro,
Non l'intendo, non so...
ERM.
Taci, spergiuro.

Un labbro mendace,
Se parla, se giura,
Gl'inganni procura,
Rimorsi non ha.
Coperta da un velo
La fè degli amanti;
Son tutti incostanti.
Non hanno pietà. (parte)



SCENA NONA

Celindo, poi don Ramerino

CEL.
Qual da fulmine colto
Pastor ch'esser non sa morto o ferito,
Gli accenti del mio ben m'hanno stordito.
Ma d'Artimisia il labbro
Quai detti pronuncio? Mi ama ella dunque?
Ella aspira al mio foco, e la nipote
Non ha rossor di rendere infelice?
E sugli occhi di lei lo svela e dice?
RAM.
Amigo, non conviene
L'ore all'ozio donar. Di chi ci onora,
Le finezze gradir si mostra poco.
CEL.
Che volete da me?
RAM.
V'invito al gioco.
CEL.
Deh, lasciatemi in pace.
RAM.
Io non pretendo
Insidiarvi la borsa. Una partita
Sol, per divertimento,
Fino all'ora di pranzo.
CEL.
(Oh che tormento!) (da sé)
RAM.
Scegliete il gioco voi.
CEL.
Ma se vi dico...
RAM.
Del tresette scoperto io sono amico.
Vi darò quattro punti...
CEL.
Ora non posso.
RAM.
Che vi turba, Celindo? Ah, convien dire,
Se ricusate il bel piacer del gioco,
Che vi opprima il cordoglio, e non sia poco.
CEL.
Sì, l'affanno mi opprime. Erminia, oh Dio!
Dubita che di fede
A mancarle cominci, e non mi crede.
RAM.
Compatisco il martir che vi dà pena.
Ma per distrarre appunto
Da sì tristo pensiere
La mente sbigottita,
Meco fare dovreste una partita.
CEL.
Deh, per pietà...
RAM.
Credetemi che il gioco
Tutt'altro fa scordar. Quando seduto
Io sono al tavolier, mi scordo a un tratto
Degli affar, degli amici e de' parenti:
E, quel ch'è meglio ancora,
Tutti i debiti miei mi scordo allora.
CEL.
Per me tutto fia vano;
Non ritrovo piacer, pace non trovo,
Se dell'idolo mio lo sdegno io provo.
Non l'inutile gioco,
Non le feste, i teatri, il ballo, il canto
Mi potrian consolar, s'io vivo in pianto.

Misero, senza il dolce
Conforto di speranza,
Misero, sol m'avanza
L'affanno ed il dolor.
Perde la face il lume,
Se priva e d'alimento;
Come la face al vento,
Langue nel seno il cor. (parte)



SCENA DECIMA

Don Ramerino solo.


E pur l'amore istesso,
Sia piacer, sia tormento, o gelo, o foco,
Perfetta analogia serba col gioco.
Gode talor l'amante,
Talor smania e delira.
Ora ride chi gioca, ed or sospira.
Cento disprezzi a un cuore
Compensa una finezza;
E una vincita solo.
Lo sfortunato giocator consola.
Rimedio e dell'amore
Talor cambiare il foco;
Suol la sorte cambiar chi cambia gioco.
E alfin consuma i giorni,
E alfin manda la casa in precipizio
L'incauto amante, e il giocator per vizio.

Un nobile affetto
Lo spirto serena.
Giocar per diletto
Si può senza pena.
In uno è difetto,
Nell'altro virtù.
Febrifugo arcano,
Mortale veleno
La medica mano
Sa porgere al seno
Col semplice indiano
Che vien dal Perù. (parte)



SCENA UNDICESIMA

Gabinetto d'Artimisia con tavolino e sedie.

Artimisia sola.


Secondar l'amante ognora
A me sembra una viltà;
Il nocchier si stima allora
Che a contraria se ne va.
A me piace dir di no
Quando gli altri dicon sì.
Chi mi vuole, io son così;
Chi non vuol, se n'anderà.

Elà, tosto si rechino (viene un Paggio)
Due cioccolate a me. Del cavaliere
Cerchisi, e sappia ch'io lo bramo adesso.
Itene, e a don Pacchion dite lo stesso.
Misero don Pacchione!
L'ora del pranzo differir mi piace
Per vederlo languire, e il cavaliere,
Che solo in ozio non può star mezz'ora,
Nella camera mia passeggia ancora.
Eccoli tutti due.



SCENA DODICESIMA

Il Cavaliere, don Pacchione e detta.

CAV.
Obbedïente
Vengo, madama, a' cenni vostri.
PACC.
Anch'io
Faccio per obbedirvi il dover mio.
ART.
Mesti vi veggo, e scoloriti in viso.
Qualche affanno improvviso
V'agita, vi conturba, e opprime il cuore?
In verità, signore, (al Cavaliere)
Con tal malinconia
Voi mi fate una bella compagnia!
CAV.
Sol per darvi piacer...
ART.
Basta, non voglio
Sentire altra ragione.
Qual disgrazia è accaduta a don Pacchione?
PACC.
Dire... per me non parlo,
Che non curo mangiar; ma veramente
L'ora s'avanza, e per destin fatale,
Quel vitel sì prezioso anderà a male.
ART.
Ecco il solito stil...
PACC.
Per me non parlo.
Per me fatta non è quella pietanza.
Io mi pasco d'amore e di speranza.
ART.
Sentite? (al Cavaliere)
CAV.
E poi direte
Che son io l'infedel che non v'adora.
ART.
Questa cosa finor non dissi ancora.
CAV.
Dunque, se del mio amor...
ART.
Tacete. Io peno
Nel vedervi penar, miseri entrambi.
L'ora in fatti del pranzo
Avanzando si va; mi disse il cuoco
Che vi manca non poco a dar in tavola,
E affamata son io come una diavola.
Qualche cosa si faccia almeno intanto.
Diciamo una canzone,
Stiamo un po' in allegria,
Beviam la cioccolata in compagnia.
PACC.
Sì, sì, la cioccolata
Darà un po' di ristoro.
CAV.
Scemerà una canzone il mio martoro.
ART.
Eccola qui la canzonetta amena
Con musica e parole.
Ecco la cioccolata a chi ne vuole.
PACC.
(Questa è per me). (da sé)
CAV.
Porgete a me quel foglio.
ART.
Aspettate, che pria bevere io voglio.
PACC.
(E quando me la dà?) (da sé)
CAV.
Potrei frattanto
Darle una ripassata.
PACC.
Si raffredda quell'altra cioccolata.
ART.
Ho finito. Tenete;
Lo stomaco con questa reficiate;
Su, bevetela presto, e voi cantate.
PACC.
Signora, in verità...
CAV.
Se mi permette...
ART.
Quel ch'io dico si fa, né si ripette.

Bevete, se mi amate,
Non ci pensate su.
Per amor mio cantate,
Non aspettate più.
PACC.
Ah pazienza! canterò.
CAV.
Per piacervi, io beverò.
PACC.
Il misero augelletto
Vede chi mangia il miglio,
E nella gabbia stretto,
Canta, digiuno ancor.
ART.
Che vi par? non è bellina?
CAV.
Bella inver, ma canta male;
Se vi piace, io canterò.
PACC.
Egli canti, io beverò.
ART.
Seguitate. Mi piacete.
Terminate, via bevete,
Che ambidue vi goderò.
CAV.
} a due
Che pazienza, che tormento!
Questo è gusto? Signor no.
PACC.
ART.
V'è altro gusto? Signor no.
PACC.
Muore di fame il lupo;
Vede mangiare, e freme...
CAV.
Ma gli manca sino il fiato.
Deh, lasciate...
ART.
Signor no.
PACC.
Se l'amico s'e annoiato,
Quegli avanzi...
ART.
Signor no.
PACC.
Canti chi vuol cantare,
Io non ne posso più.
ART.
Muore di fame il lupo...
Io non ne posso più.
CAV.
Vede mangiare, e freme...
PACC.
No, non ne posso più.
ART.
Dunque si canti insieme.
CAV.
} a tre
Cantisi dunque su.
PACC.
ART.
a tre
Fiero tormento e amore,
Fame crudel tormenta;
Viva chi si contenta,
Viva chi gode ognor. (partono)


    1. ATTO SECONDO



SCENA PRIMA

Giardino.

Don Pacchione e Ramerino

PACC.
Amico, in confidenza,
Un piacer bramerei, giacché siam soli.
RAM.
Sì, sì, v'intendo, amico.
Poiché nessun ci vede,
Sotto questa de' faggi ombra diletta
Voi vorreste giocare alla bassetta.
PACC.
No, v'ingannate assai:
Codesto vizio non l'ho avuto mai.
Quando ho danari in tasca,
A me piace goderli in compagnia
Cogli amici in mia casa o all'osteria.
RAM.
Piace anche a me la società. Goduto
Al magnifico pranzo ho anch'io non poco.
Ora il tempo passar vorrei col gioco.
PACC.
A proposito, appunto
Del pranzo ho da parlarvi.
RAM.
Voi stamane
Non avete mangiato.
Povero don Pacchion, siete ammalato?
PACC.
Anzi sto ben, con il celeste aiuto;
Ma soffrire ho dovuto,
Per certa convenienza,
Il tormento crudel dell'astinenza.
RAM.
Non intendo il perché...
PACC.
Saper vorrei
Come riuscì quel piatto di vitello.
Ditemi s'era buono, in cortesia.
RAM.
Era un piatto prezioso.
PACC.
Oh vita mia!
RAM.
Il cuoco miglior cosa
Non ha fatta stamane, a gusto mio.
PACC.
Di quel piatto l'autor sono stat'io.
RAM.
Bravissimo!
PACC.
Era buono?
RAM.
Era esquisito.
PACC.
Ben cotto? saporito?
RAM.
Era eccellente.
PACC.
Ed io non ne ho potuto mangiar niente.
RAM.
Perché?
PACC.
Perché Artimisia,
Ch'io venero e rispetto,
Ha per me dell'affetto;
Ma perché troppa carne
A lei fa dispiacenza,
Distruggere mi vuol coll'astinenza.
RAM.
Bellissima davvero!
Artimisia vi vuol parco, astinente,
Ella mangia, ella beve allegramente:
Come colui che sgrida il giocatore,
Poi si mette a giocar da traditore.

Se uno specchio avesse in mano
Chi corregge i vizi altrui,
Principiar dovrebbe in lui
Le passioni a moderar.
Per superbia l'uomo insano
Dell'altr'uom le macchie vede;
Né si specchia, e non s'avvede
Ch'è vicino a delirar. (parte)



SCENA SECONDA

Don Pacchione, poi Rosalba

PACC.
Affé, don Ramerino
Non dice mal. La vedova gentile
Mi vuol digiuno con le grazie sue,
Ed ella a desinar mangiò per due.
Se cibo degli amanti è la speranza,
O Artimisia vezzosa amor non sente,
O dall'amante suo non spera niente.
ROS.
Don Pacchione, che fate?
A bere non andate,
Come gli altri, il caffè?
PACC.
Sì, andiamo tosto.
ROS.
Andiamo... No, fermate.
Ecco il paggio; osservate.
Ve lo manda Artimisia in questo loco.
PACC.
Me lo manda Artimisia? Ah, non è poco.
ROS.
Eccolo; don Pacchione,
Volete ch'io vi serva?
PACC.
Simili grazie non ricuso mai.
ROS.
Poco zucchero, è vero?
PACC.
Assai, assai.
ROS.
Basta?
PACC.
Un altro pochino.
ROS.
Così?
PACC.
Così va bene.
ROS.
Siete un ghiotto perfetto.
PACC.
Lo zucchero per me fa bene al petto.
ROS.
Questo dolce sciroppo or via pigliate.
PACC.
Lo beverò con gusto.



SCENA TERZA

Artimisia e detti.

ART.
Olà, fermate.
PACC.
Ma perché?
ROS.
Poverino!
Deh lasciate ch'ei beva
Questo caffè di zucchero ripieno.
ART.
Non signore.
PACC.
Perché?
ART.
Perché è veleno.
PACC.
Veleno?
ROS.
(Oimè, che dite?) (piano ad Artimisia)
ART.
(State zitta; ridete, e non partite). (piano a Rosalba)
PACC.
Qual tradimento è questo?
ART.
Tal periglio funesto
Per cagione del merto a voi sovrasta.
Ho scoperto l'arcano, e tanto basta.
PACC.
Chi vuolmi avvelenar?
ART.
Tutti.
PACC.
Ma come?
ART.
L'amor, la stima che ho per voi nel petto,
Tutti accese d'invidia e di dispetto.
A comperar veleni
So che taluno è stato,
E voi temer dovete
Tutto quel che mangiate e che bevete.
PACC.
Dunque me n'anderò.
ART.
Mi maraviglio.
Voi dovete restar.
PACC.
Ma se mi vogliono
Avvelenar?
ART.
Difendervi potete.
Basta che non mangiate e non bevete.
PACC.
Mangiare o non mangiar per me è tutt'uno;
Morirò avvelenato ovver digiuno.
Voglio di qua partir.
ART.
Tutte le porte
Chiuse voi troverete;
Senza licenza mia non partirete.
PACC.
Deh, Rosalba gentile,
Parlate in mio favore.
ROS.
Io non m'imbroglio.
PACC.
Deh, lasciate ch'io parta.
ART.
No, non voglio.
PACC.
Maledetto il momento
Ch'io son venuto qui! Muoio di fame,
Non posso satollarmi,
E poi vogliono ancora avvelenarmi?
Se morto mi volete,
Pacchione creperà;
Ma ammazzatelo presto, in carità.

Donne crudeli e perfide,
Donne spietàte e barbare,
Toglietemi d'impaccio,
Deh fatemi crepar.
Con una spada ziff,
Con un coltello zaff.
O con un laccio ih!
O con un maglio ah!
Ma nel mio seno
Non vuò veleno;
Ma l'astinenza,
Ma l'appetenza
Mi fa tremar.
Crudeli e perfide,
Spietate e barbare,
Di mal di stomaco
Non vuò crepar. (parte)



SCENA QUARTA

Artimisia e Rosalba

ROS.
In verità, cugina,
Più non potevo trattener le risa.
Il pover galantuomo
Soffre per cagion vostra un bel tormento.
ART.
Questo è l'unico mio divertimento.
ROS.
Ma coll'andar del tempo,
Se non cangiate in suo favor pensiero,
Fra il digiuno e il timor morrà da vero.
ART.
Infino a questa sera
Bastami di goder la bella scena;
Procurerò disingannarlo a cena.
ROS.
Ah non vorrei, signora,
Si dicesse perciò quel che sì spesso
Gli uomini soglion dir del nostro sesso.
Spiacemi quando sento
Dir: le donne son furbe e menzognere.
Le vorrei, qual io son, tutte sincere.

In questo mio cuore
Inganno non v'è.
Sincero è l'amore,
Sincera è la fè.
Tradire non so,
Schernire non vuò.
Cogli altri fo quello
Che bramo per me. (parte)



SCENA QUINTA

Artimisia, poi Celindo

ART.
Cara cugina mia, ti credo poco.
Queste cosuccie fredde,
Che non paiono in viso punto scaltre,
Son accorte, son furbe più dell'altre.
Ecco Celindo. Poverino! ei pena,
Ma non mi basta ancor.
Mi piace il gioco:
Voglio tirarlo innanzi ancora un poco.
CEL.
Artimisia, pietà...
ART.
Sì, disponete
Del mio amor, di mia fè, che vostra io sono.
CEL.
Non pretendo da voi...
ART.
Tutto vi dono.
Che volete di più?
CEL.
Mi giunge nuovo,
Artimisia gentil, codesto amore.
La mia fede, il mio cuore
Ad Erminia donai, voi lo sapete.
ART.
È ver; voi non potete
Lasciarla, abbandonarla.
Sperar l'affetto vostro a me non lice.
Ah misera, infelice!
Penar senza speranza mi conviene.
Altri avranno i contenti, ed io le pene.
CEL.
(Mi fa pietade). (da sé)
ART.
(Ha da cascar, se fosse
Più duro d'un macigno). (da sé)
CEL.
(Ma non posso
Erminia abbandonar). (da sé)
ART.
Non giova al mondo
Fede, sincerità, costanza, amore;
Per guadagnare un cuore
Che le grazie più belle in sé raduna,
Merito non ci vuol, ci vuol fortuna.
CEL.
Spiacemi che sì tardi
Scoperto il vostro foco...
Ah, sfortunato io sono...
Artimisia, vi stimo.
ART.
(Or viene il buono). (da sé)
No, no, di mia nipote
La bellezza v'alletta.
Ella è più giovanetta.
È ver che la mia dote
Supera dieci volte
Gli assegnamenti suoi;
Ma una vedova alfin non è per voi.
CEL.
Non è per me?
ART.
No, ingrato,
Io non sono per voi. Se la mia mano
Fosse stata, crudele, a voi gradita,
Non avereste Erminia preferita.
CEL.
Ma se...
ART.
Non v'è più tempo.
Senza frutto il mio cuor si strugge in pianto.
Come la cera al foco,
Si disfan le mie carni a poco a poco.
CEL.
Veggo però, che ancora
E fresca, e grassa, e ritondetta siete.
ART.
Ah, crudele, il mio mal voi ben vedete.
CEL.
Se potessi, vi giuro...
ART.
No, d'amor non mi curo.
Basta, di chi v'adora,
Che pietade mostriate, e poi si mora.
CEL.
Se della mia pietà... dell'amor mio...
(Stelle, che fo?) (da sé)
ART.
(Principia
Il merlotto a cader). (da sé)
CEL.
Voi, che d'Erminia
Nel sen potete regolar gli affetti...
ART.
Ah Celindo, v'intendo.
CEL.
A voi s'aspetta...
ART.
Non più: la vostra mano.
CEL.
La mia mano? Perché?
ART.
Non state a replicar. La mano a me.
CEL.
Oh cieli! eccola.
ART.
Accetto
Di questa mano il dono.
E perché giusta io sono,
E perché nell'amor tradir non soglio,
Portatela ad Erminia, io non la voglio.
CEL.
Come?
ART.
Tant'è.
CEL.
Se voi...
ART.
Ognun badi, Celindo, a' fatti suoi.
CEL.
Se per me voi penate...
ART.
Capperi, vi gonfiate
Nel sentir che una donna
Peni e smani per voi?
CEL.
No, mi tormenta
Che vi crucci per me d'amore il foco.
ART.
Lo potrei anche dir così per gioco.
CEL.
Ah sì, di me senz'altro
Gioco vi prenderete.
Con chi merto non ha, far lo potete.
ART.
(Ecco qui mia nipote). (da sé)



SCENA SESTA

Erminia e detti.

ERM.
(Oh cieli! Uniti
Anche qui li ritrovo?) (da sé)
ART.
Celindo, quel ch'io provo
Nel mio tenero petto
È veramente affetto;
Non vi burlo, non fingo e non v'inganno.
(Anche alla nipotina un po' d'affanno). (da sé)
ERM.
(Misera me!) (da sé)
CEL.
Signora,
Se potessi la man...
ART.
La vostra mano
Ad Erminia è dovuta.
Eccola.
CEL.
(Oh cieli! Io non l'avea veduta). (da sé)
ERM.
No, non vi confondete.
Se voi pentito siete
Della fede giurata all'amor mio,
Sono del vostro amor pentita anch'io.
CEL.
Erminia, questo cor...
ERM.
Più non lo curo.
CEL.
Artimisia potrà...
ERM.
Di lei non cerco.
CEL.
Ah, pria ch'io mi disperi...
Voi parlate per me. (ad Artimisia)
ART.
Sì, volentieri.

Nipotina, mi dispiace, (ad Erminia)
Ma non posso il ver celar.
Dice lui che gli dispiace
Questa flemma di parlar.
Dice lei che siete bello, (a Celindo)
Ma che siete sgarbatello,
Senza grazia nel parlar.
(Voglio farli disperar). (da sé)
Non c'è caso, non vi vuole, (ad Erminia)
Non la posso accomodar.
Ho gettate le parole, (a Celindo)
Non vi vuol più sopportar.
(Poverini, in verità,
A vederli fan pietà.
Me la godo,
Me la rido,
Prendo spasso,
Faccio il chiasso,
Voglio farli disperar). (da sé, e parte)



SCENA SETTIMA

Erminia e Celindo

ERM.
(Perfido! mi disprezza?) (da sé)
CEL.
(Insulti ed onte
Erminia a me?)
ERM.
(Potea lasciar d'amarmi
Senza farmi arrossir, senza oltraggiarmi). (da sé)
CEL.
(Potea trovar più onesto
Di vendetta lo sfogo ed il pretesto). (da sé)
ERM.
Quanto t'amai, ti aborrirò.
CEL.
Lo sdegno
Moderate, madama.
ERM.
Chi vi cerca, signore?
CEL.
E chi vi brama?
ERM.
Un flemmatico ciglio a voi non piace;
Artimisia è per voi, ch'è scaltra e audace.
CEL.
Né per voi è adattato
Un amante sgarbato.
ERM.
Il cielo dunque
L'un per l'altro non fece il nostro cuore.
Io son misera, è ver, voi traditore.

No, non dovevi, ingrato,
Finger d'amarmi allora
Che non aveva ancora
L'alma provato amor.
Ora che ho il cuor piagato,
Tu mi disprezzi, audace?
Ah, la smarrita pace
Rendimi al seno ancor. (parte)



SCENA OTTAVA

Celindo solo.


Artimisia, egli è ver, fuor di me stesso
Mi guida a delirar. Pietà mi desta:
Alla pietà s'aggiunge
Qualche bella speranza, ed a ragione
Mi rimprovera Erminia. Ella per altro
Col pianto e con i vezzi
Mi potrebbe obbligar, non coi disprezzi.
Dir ch'io non le gradisco
Perché sono sgarbato, e oltraggio tale
Che mi muove a dispetto,
Che converte in isdegno anche l'affetto.

Donne, voi che amate siete
Per il vezzo e la beltà,
Il rigor, la crudeltà,
Potrà farvi un dì sprezzar.
Se tirannico è l'impero,
Mal si regge e poco dura;
Quando pesa, si procura
L'aspro giogo di spezzar. (parte)



SCENA NONA

Il Cavaliere di Roccaforte, con una carta di musica in mano.


Il misero augelletto
Vede chi mangia il miglio;
E nella gabbia stretto,
Canta, digiuno ancor.

Oimè, posso sfogarmi:
Artimisia non sente e non mi vede.
Chi nol sa, non lo crede
Qual dura pena sia,
Per uom di spirto, la malinconia.
Son solo e vuò sfogarmi,
Vuò cantar, vuò ballar, vuò far per gioco,
Giacché solo son io, di tutto un poco.

Piacer amabile
D'un'alma nobile
È il lieto vivere
Con onestà.
La la la lara (ballando)
La la ra la.
È sempre misero
L'uom senza spirito.
Chi vive in giubilo,
Godendo va.
La la la lara (ballando)
La la ra la.



SCENA DECIMA

Artimisia, don Ramerino, Rosalba e detto.

ART.
(Mirate il poverino,
Ch'è impazzito davvero. Presto, presto,
Il medico, il cerusico cercate;
Conduceteli qui, non ritardate). (piano a don Ramerino e Rosina, senza che il Cavaliere s'avveda)
RAM.
(Povero cavaliere!) (da sé)
ROS.
(Mi fa pietà il meschino). (da sé)
CAV.
(Ecco Artimisia;
Cangiar stile conviene). (da sé) Ah mia signora,
Per pietà, consolate un che v'adora.
RAM.
(Par che sano favelli). (piano ad Artimisia)
ART.
(Passare alla mestizia,
Dopo tanta allegria,
È l'effetto più ver della pazzia). (piano a don Ramerino)
CAV.
Rispondetemi almeno, o sì, o no;
Ah, se voi mi schernite, io morirò.
ROS.
(Parla bene finor). (piano ad Artimisia)
ART.
(No, v'ingannate.
Dir di voler morir, senza un perché,
Son parole da pazzo, e pazzo egli è). (piano a Rosalba)
CAV.
Ah crudele, spietata,
Barbara donna ingrata!
Voi negate al mio mal pietà e conforto?
Così voi mi trattate? Oimè, son morto.
ART.
(Presto, il medico, presto, ed il cerusico).
RAM.
(In fatti è tutto foco.
Par un che persi abbia i danari al gioco). (parte)
ROS.
(È pazzo per amor; se fossi in lei,
Da sì fatta pazzia lo guarirei). (da sé, e parte)



SCENA UNDICESIMA

Artimisia ed il Cavaliere

CAV.
Possibile, mia cara,
Che spietata così?...
ART.
Con chi parlate?
CAV.
Con voi, mio ben.
ART.
Chi siete?
Non vi conosco. E voi mi conoscete?
CAV.
Stelle, non siete voi
Artimisia, il mio nume, il mio tesoro?
ART.
Che Artimisia? che dite?
La contessa son io di Montebello.
Voi avete, meschin, perso il cervello.
CAV.
Ah, ah, brava davvero!
Voi cangiaste pensiero, in grazia mia.
Voi scherzate con me per allegria.
ART.
Olà, mi maraviglio;
Portatemi rispetto.
CAV.
Oh cara, oh cara!
ART.
Oh pazzo maladetto!
CAV.
A me pazzo?
ART.
Sì, a voi,
Che non mi conoscete
E far meco il grazioso pretendete.
CAV.
(Oimè, fossi davvero
Per disgrazia impazzito!) (da sé)
ART.
(A poco a poco
Se lo crede egli stesso). (da sé)
CAV.
Oh dei! Non siete
Artimisia, il mio ben?
ART.
No, ve l'ho detto.
CAV.
(Impazzito sarò per troppo affetto). (da sé)
ART.
Chi è cotesta Artimisia?
CAV.
È una tiranna
Che mi vuol tormentare, è una vezzosa
Amabil vedovella.
Artimisia, il mio ben... voi siete quella.
ART.
Alla larga, vi dico.
CAV.
Eh, giuro al cielo!
Vi conosco, lo so, pazzo non sono.
Pietà vi chiedo in dono;
Voi fate del mio cor scherno e strapazzo;
Vi conosco, Artimisia, io non son pazzo.
ART.
Aiuto! Chi è di là?



SCENA DODICESIMA

Don Ramerino, Rosalba, un Medico, un Chirurgo e detti.

CAV.
Chi son costoro?
RAM.
(A lei, signor dottore;
Visiti l'ammalato, per favore). (piano al Medico)
ROS.
(Signor chirurgo, in fretta
Prepari il moccolino e la lancetta). (piano al Chirurgo)
ART.
(Questa scena per mille io non darei). (da sé)
(Il Medico e il Cerusico s'accostano al Cavaliere)
CAV.
Che vogliono da me, signori miei? (Il Medico gli vuol tastare il polso)
Il polso? Andate via, non son malato.
(Il Cerusico colla lancetta accenna dovergli cavar sangue)
Sangue? Signor cerusico sguaiato,
Signor dottor, che impertinenza è questa?
Vi do or or qualche cosa in su la testa.
ART.
È pazzo il poverino.
CAV.
Dite, don Ramerino,
Dite, Rosalba mia,
Quella non è Artimisia?
ART.
Oh che pazzia!
Non mi conosce più.
CAV.
Sì, vi conosco;
Sì, vi conosco, ingrata,
Barbara, dispietata.
ART.
Presto, presto,
Signor dottor, signor chirurgo, presto,
Cavate al poverello
Quattro libbre di sangue dal cervello.
(Il Medico ed il Chirurgo si vanno accostando per fermarlo, e così gli altri ancora, mentre egli dice l'aria seguente)

CAV.
Non v'accostate, non mi toccate:
Se non son pazzo, lo diverrò.
Bella tiranna, (ad Artimisia)
Perché crudele
Con chi fedele
V'ama di cor?
Non mi toccate, (al Medico e al Cerusico)
Non v'accostate,
Non provocate
Il mio furor.
Voi alla bella (a don Ramerino e a Rosalba)
Mia vedovella
Per me chiedete
Pietade e amor.
Non v'accostate, non mi toccate,
Che, se son pazzo, v'accopperò. (parte)
ART.
} a tre
V'è nessun ch'abbia il segreto
Di guarire un pazzarello,
Che ha perduto il suo cervello?
Tutti dicon signor no. (partono tutti)
RAM.
ROS.



SCENA TREDICESIMA

Luogo delizioso.

Celindo e don Pacchione

PACC.
Dica, signor Celindo, mio padrone,
Sovra il cuor d'Artimisia ha pretensione?
CEL.
Può essere di sì.
PACC.
Quando dunque è così,
Vossignoria sarà
Uno di quei che vogliono onorarmi.
CEL.
Onorarvi? in qual modo?
PACC.
Avvelenarmi.
CEL.
Amico, quest'è un sogno.
PACC.
Se Artimisia
Provida non avea pietà di me,
Mi davano il veleno nel caffè.
CEL.
Duolmi di ciò, ma più mi duole ancora
Che di me si sospetti. So regolar gli affetti;
Il mio amore, il mio sdegno,
Non arrivano, amico, a questo segno.
PACC.
Ma il nemico vi è certo:
Sono stato avvertito.
Io muoio d'appetito,
E non posso nemmeno
Cibo assaggiar, per tema del veleno.



SCENA QUATTORDICESIMA

Rosalba e detti, poi Artimisia

ROS.
Oh che caso fatal!
PACC.
Cos'è accaduto?
ROS.
È pazzo divenuto
Il Cavalier gentile:
Pazzo non ho veduto a lui simile.
Il medico, il chirurgo,
Erano per curarlo preparati;
Egli, pien di furor, li ha minacciati.
CEL.
Me ne dispiace assai.
PACC.
Mi duol davvero;
Ma il mio caso del suo più strano i' veggio,
E se mi vonno avvelenar, sto peggio.
ART.
Amici, il cavaliere
Ha perduto il cervello:
Ha dato in frenesia,
È furiosa e talor la sua pazzia.
Dice il medico nostro
Che, per non riscaldarlo,
Conviene secondarlo
Nelli capricci sui,
E dir sempre di sì dinanzi a lui.
CEL.
Misero cavaliere,
Mi muove a compassione.
PACC.
Ma di lui più infelice è don Pacchione.
ART.
Perché?
PACC.
Perché chi è pazzo
Non sente il male, e non conosce il bene.
Di fame io muoio, e digiunar conviene.
ART.
Eccolo il pazzarello.
Avvertite che s'ha da secondare;
E per non l'irritare,
E perché non ci nascano de' guai,
Dinnanzi a lui non s'ha da rider mai.
PACC.
Per me non riderò.
CEL.
Né io per certo.
ROS.
Del mal d'altri non rido, io ve l'accerto.
ART.
(A quel che meditai,
Se non ridono, affè, mi pare assai). (da sé)



SCENA QUINDICESIMA

Il Cavaliere e detti.

CAV.
Amici, per pietà...
ART.
Con chi parlate?
CAV.
Signora, perdonate.
ART.
E chi son io?
CAV.
Artimisia no certo.
ART.
E ben, chi sono?
CAV.
La contessa sarà di Montebello.
ART.
(Non vel dissi che è pazzo il poverello?)
PACC.
(Quasi rider mi fa).
ART.
(No, non si ride;
Se ridete, s'infuria, e poi vi uccide).
E voi, chi siete?
CAV.
Io sono...
Non so più chi mi sia.
Sono un mostro d'Averno.
CEL.
} a tre
Oh che pazzia! (tutti tre ridendo)
ROS.
PACC.
CAV.
Schernito i' son?
ART.
(Tacete.
Secondatelo tutti, e non ridete).

CAV.
Ho le furie nel mio petto:
Ah, mi lacera il dispetto,
Più resister non si può.
CEL.
Cavalier, vorrei sapere...
CAV.
Dove andato il cavaliere?
PACC.
Roccaforte, amico mio...
CAV.
Roccaforte non son io.
ART.
} a due
Ma chi siete?
ROS.
CAV.
Non lo so.
ART.
} a due
Ma che avete?
ROS.
CAV.
Vel dirò.
Ho perduto il mio cervello,
Ho nel seno un Mongibello,
E il mio cor soffiando va.
CEL.
} a tre
Ah ah ah ah. (ridendo)
PACC.
ROS.
ART.
Non ridete, in carità.
CAV.
Chi spietato mi deride,
Il mio sdegno proverà.
CEL.
} a quattro
Non si parla, non si ride;
Tutti abbiam di voi pietà.
ART.
PACC.


ROS.
CAV.
Io non sono il cavaliere?
ART.
Non signor, non siete quello.
CAV.
Roccaforte non son io?
PACC.
Non signor, padrone mio.
CAV.
Sono un pazzo?
CEL.
Non lo credo.
CAV.
Una bestia?
ROS.
Non lo vedo.
a cinque
Che disdetta - maledetta!
Che tormento, che pietà!
CAV.
Vuò partir, son disperato.
PACC.
Non partite in questo stato.
CAV.
Voglio andare al cieco Averno
A sfidar la crudeltà.
CEL.
} a tre
Ah ah ah ah ah ah. (ridendo)
PACC.
ROS.
ART.
Non ridete.
CEL.
} a tre
Non si ride.
PACC.
ROS.
CAV.
Pazzi siete?
CEL.
} a tre
Ah ah ah.
Pazzi a noi? (ridendo)
PACC.
ROS.
ART.
Tacete, olà.
a cinque
Quest'imbroglio,
Questo scoglio,
Superar non si potrà.
CAV.
Pazzi siete.
CEL.
} a tre
Ah ah ah.
PACC.
ROS.
ROS.
} a due
Zitto là.
CAV.
TUTTI
Giusto cielo,
Togli il velo
A cotanta cecità.
Ciel sereno,
Torna appieno
Nella tua serenità. (partono)


    1. ATTO TERZO



SCENA PRIMA

Camera.

Erminia ed Artimisia

ART.
Venite qui, nipote garbatissima,
Vi voglio consolare; anzi vi voglio
Chiedere un po' di scusa,
Se per divertimento
Recato ho al vostro cuor qualche tormento.
Siamo in campagna alfine,
E par che la campagna ci permetta
Di far, per allegria, qualche scenetta.
ERM.
Signora, io non v'intendo.
ART.
Mi spiegherò. Sappiate
Che il povero Celindo
V'ama, v'adora, ed è fedele a voi.
Diciamola tra noi:
Un po' di tentazion gli ho posta in mente,
Ma l'ho fatto per burla, e non è niente.
ERM.
Voi faceste da scherzo, egli davvero.
In ogni guisa è sempre
Mancatore Celindo.
ART.
Eh via, nipote,
Ogni trista memoria ormai si taccia.
Chi è di là? (viene il Paggio)
ERM.
Quell'ingrato
Mi ha schernito, mi ha offeso, e mi tradì.
ART.
Dite a Celindo che l'aspetto qui. (al Paggio che parte)
ERM.
Seco non vuò parlar.
ART.
Sì, nipotina,
Parlate al meschinel che vi vuol bene.
Serbar odio per questo non conviene.
ERM.
No, non merita amore.
ART.
Eccolo.
ERM.
Io parto.
ART.
Alfin son vostra zia:
Un affronto non soffro in casa mia.
ERM.
Resterò per rispetto.
ART.
(Vuò che faccian la pace a lor dispetto). (da sé)



SCENA SECONDA

Celindo e dette.

CEL.
Che si vuole da me?
ART.
Celindo caro,
La maschera mi levo e parlo chiaro.
Finsi amore con voi, sol per far prova
Della costanza vostra
Con Erminia che v'ama;
E mi ha scandalizzato
Debol tanto trovarvi, e tanto ingrato.
CEL.
Merito, è ver, lo scherno,
Merito sdegno e non domando amore.
Ma se pietoso il cuore
S'arrese al vostro pianto,
Reo della colpa mia non son poi tanto.
ART.
Uditelo, nipote;
Ei da sé stesso mancator s'accusa,
E nel merito mio trova la scusa.
Di pietà non è indegno
Chi mi apprezza e mi stima a questo segno.
ERM.
Se vi fanno pietà gli affetti suoi,
Consolatelo voi. (ad Artimisia)
ART.
E perché no?
Se lo dite davvero, io lo farò.
ERM.
(Misera me!) (da sé)
ART.
Finiamola.
Venite qui. (a Celindo)
CEL.
Obbedisco.
ART.
Datemi quella mano.
ERM.
(Oimè, che tenta?) (da sé)
ART.
Nipotina gentil, siete contenta?
ERM.
Ah, che voi mi tradite.
Amo ancor quell'ingrato,
Lo confesso pur troppo a mio rossore;
Voi da questo mio sen strappate il cuore.
ART.
Ah, ah, l'ho indovinata.
L'avete confessata
La passione che ancor v'arde di drento.
Ora è il mio cuor contento.
Ecco, Celindo è vostro, e non è mio.
Aggiustatevi voi. Signori, addio. (parte)



SCENA TERZA

Erminia e Celindo

CEL.
Bella Erminia adorata.
ERM.
Bella a me, se sprezzata
M'avete, ingrato, audacemente altero?
CEL.
Idol mio, non è vero.
Artimisia ha voluto
Ridere a spese nostre, io l'ho saputo.
ERM.
Ma voi del di lei merito
Siete invaghito.
CEL.
Il pianto
Di colei m'avvilì.
ERM.
Che debil cuore!
Per pietà divenuto è traditore?

Fra le virtù dell'alma
Bella pietà si onora;
Ma la pietade ancora
Sempre non è virtù.
Quando l'onesto eccede,
Nemica è alla ragione,
Quando al dover s'oppone,
Non si conosce più. (parte)



SCENA QUARTA

Celindo, poi don Pacchione

CEL.
Alfin si placherà, placato io sono.
Ogni onta le perdono... Ma qual onta?
Ella non m'ha sprezzato.
Artimisia l'ha detto, ed ha scherzato.
È ver che siamo in villa,
Che di tutto si può prendersi gioco,
Ma Artimisia, per dirla, eccede un poco.
PACC.
Amico, allegramente.
CEL.
Allegri, se si può.
PACC.
Allegri, che stassera io mangerò.
CEL.
D'esser avvelenato
Non avete paura?
PACC.
No, Artimisia mel dice, e m'assicura.
CEL.
Ed io credo che mai
Vi sia stato per voi cotal periglio.
Scherza Artimisia, e noi pone in scompiglio.
PACC.
Sia com'esser si voglia,
Stassera mangerò; questo mi basta.
Se giunger posso a lavorar coi denti,
I perigli mi scordo ed i tormenti.
CEL.
Già la sera s'avanza;
Nella vicina stanza
S'imbandisce la mensa, e manca poco
A consolarvi affatto.
PACC.
Artimisia da me voluto ha un patto.
CEL.
E quale?
PACC.
Pria che giunga
L'ora d'andare a cena,
Vuol ch'io abbia la pena
Di stare a tavolino
Col gioco a trattenere Ramerino.
CEL.
Che bizzarro pensier!
PACC.
Dice che a tutti
Vuol dar soddisfazione:
Contenta di ciascun vuol la passione.
Obbedirla anche in ciò da me si deve;
Ma farò una partita breve breve.
CEL.
Voi amate Artimisia, e non sapete
Ch'ella del cavalier...
PACC.
Pazzo il meschino.
CEL.
Non credo che lo sia, ma se tal fosse,
È certa la ragione
Che Artimisia di tutto è la cagione.

Ah, sono pur tanti
Que' miseri amanti
Che vivono in pene
Fra l'aspre catene,
Ed han, per mercede
D'amore e di fede,
Tormenti e rigor.
Resister non puote
A legge sì dura:
Lo spirto si scuote,
La mente s'oscura.
Si cangia in deliri
L'ardor de' sospiri
D'un misero cor. (parte)



SCENA QUINTA

Don Pacchione, poi Ramerino

PACC.
Ehi, ehi, Ramerino, (verso la scena)
Venite qui; spicciamoci una volta.
Son pronto a soddisfar le vostre brame;
Giochiam pure: ma presto, perché ho fame.
RAM.
Portate il tavoliere,
E carte e segni e più d'un candeliere.
A qual gioco giochiamo?
PACC.
A un gioco presto.
RAM.
Giocheremo a picchetto.
Un filippo per un, per me direi,
Chi prima arriva alle partite sei.
PACC.
Starem qui tutta notte?
No, facciamla finita.
D'un filippo si giochi una partita.
RAM.
Una partita sola?
PACC.
Una partita, e presta.



SCENA SESTA

Rosalba e detti, ed i Servi che portano il tavolino con quel che occorre per il gioco.

ROS.
Non venite, signor? La cena è lesta.
PACC.
Vengo, sì...
RAM.
Dove andate?
Non dovete mangiar, se non giocate.
Artimisia lo disse.
PACC.
È vero, il so.
Artimisia crudele, io giocherò.
Presto, per compassione.
RAM.
Io non ho fretta. (siede)
PACC.
Giochiam questo filippo alla bassetta.
RAM.
Precipitoso non son io nel gioco.
Il danaro lo perdo a poco a poco.
PACC.
Le carte farò io.
RAM.
No, mio signore.
Lei mi fa troppo onore; s'ha da alzare,
E alla sorte veder chi tocca a fare.
PACC.
Che seccatura! Andiamo. Tocca a me.
ROS.
Signori miei, il danaro
Reca, quando si perde, un po' di pena;
Fate così, giocatevi la cena.
PACC.
Misero me, se la perdessi. Presto,
Ho scartato, signor, son bell'e lesto.
RAM.
Adagio; non ho ancora
Il gioco esaminato.
Oh! ve ne lascio una.
PACC.
Se ho scartato!
RAM.
Vostro danno... ma no, non vi fo torto,
Ritornerò a scartar.
PACC.
Son mezzo morto.
ROS.
Finitela una volta,
Che la cena patisce.
PACC.
Avete inteso?
RAM.
Io v'ho dato ripicco.
PACC.
Ed io l'ho preso. (s'alza)
Ecco il filippo; andiam; son contentissimo.
RAM.
La revincita, presto.
PACC.
Obbligatissimo.
RAM.
Un punto al faraone. (fa il taglio)
PACC.
Signor no.
RAM.
A madama dirò
Che non son soddisfatto.
PACC.
Voi mi volete far diventar matto.

Presto un punto. Vada il re.
Dite lor che vengo tosto, (a Rosalba)
E che aspettino anche me.
È venuto? Signor no.
Quando viene? Creperò.
Rosalbina, andate innanzi, (a Rosalba)
Non vorrei passar de' guai.
Questo re non viene mai?
È venuto, l'ho perduto;
Tre filippi han da bastar.
No, non voglio più giocar. (parte)



SCENA SETTIMA

Ramerino e Rosalba

RAM.
Or son contento anch'io;
È questo il gusto mio.
Quando m'ho divertito,
Mangio con più piacer, con più appetito.
ROS.
Sia ringraziato il cielo!
Veder gli altri contenti è il mio gran spasso;
Quando godono gli altri, anch'io m'ingrasso.
RAM.
Fin che staremo insieme,
V'ingrasserete poco. Sfortunato nel gioco,
Son un che gioca sempre e sempre perde;
E son, Rosalba mia, ridotto al verde.

L'umanità infelice,
A delirar soggetta,
Il proprio mal s'affretta
Incauta a procacciar.
Trova diletto in quello
Che più le reca affanno,
O non conosce il danno,
O non lo vuol curar. (parte)



SCENA OTTAVA

Rosalba sola.


Mi par assai che un uomo
E conosca, e ragioni, e parli bene,
E non sappia poi far quel che conviene.
Compatibili sono i ciechi nati,
Non gl'imprudenti e sciocchi
Che colle proprie man si cavan gli occhi.

Io veggo il periglio
D'un tenero amore,
Ascolto il consiglio
Che mandami il cuore.
Mi piace, m'alletta
La mia libertà.
M'insegna, mi dice
Farfalla infelice
Che perde le piume
Chi scherza col lume,
Chi tema non ha. (parte)



SCENA NONA

Artimisia ed il Cavaliere

CAV.
Deh, lasciatemi andar.
ART.
No, cavaliere.
La contessa non son di Montebello.
CAV.
Né il cavalier son io.
ART.
Sì, siete quello.
CAV.
O voi tre volte il giorno
Vi cambiate di cuore e di pensiero,
O divenuto i' son pazzo davvero.
ART.
Orsù, qualunque sia
Questa vostra pazzia, guarirla io voglio.
Preso ho l'impegno che sarete sano,
E quando parlo, non favello invano.
CAV.
Non ha la testa mia perduto il sale.
ART.
Del rimedio si parli, e non del male.
Io vi voglio guarir.
CAV.
Come?
ART.
Con niente.
I pazzi io li guarisco facilmente.
Il canto vi diletta?
CAV.
Sì signora.
ART.
Ed il ballo vi piace?
CAV.
Il ballo ancora.
ART.
Del matrimonio vi dispiacerebbe
La soavissima face?
CAV.
È questa un'altra cosa che mi piace.
ART.
Ecco il rimedio vostro. In questa sera,
Dopo la breve cena,
Musica vi sarà, vi sarà il ballo.
Voi che avete buon gusto e buona testa,
Sarete il direttore della festa.
CAV.
Lo farò, sì signora.
ART.
Tutto non dissi ancora.
Porgendovi di sposa alfin la mano,
Tornerete del tutto allegro e sano.
Ah, che vi par?
CAV.
Mi sento
Il core giubilar per l'allegrezza.
Cotanta contentezza
Con un sì dolce bene
Guarirebbero i pazzi da catene.
Io sono il cavalier, son Roccaforte.
Vostro sposo son io, voi mia consorte.
ART.
Piano un poco.
CAV.
Tornate
A volermi patetico?
ART.
Un sol patto
Voglio da voi per accordarvi il resto.
CAV.
Qual è il patto, mia cara?
ART.
Eccolo. È questo.
Voglio che in faccia a tutti
Di nostra compagnia,
Confessiate che deste in frenesia.
Voglio che dite d'essere impazzito,
E che la mia virtù v'abbia guarito.
CAV.
Ma come l'ho da dir?...
ART.
Tant'è, dovete
Accordar che impazziste, e dirlo a tutti.
Altrimenti vi lascio e me ne vo.
Ben, lo direte voi?
CAV.
Sì, lo dirò.
ART.
Andiamo dunque uniti
A principiar la cena.
Il povero Pacchione aspetta e pena.
CAV.
Ma se confesso io stesso
D'esser stato impazzito...
ART.
O sì, o no;
Quel ch'io voglio, direte?
CAV.
Io lo dirò.

ART.
Cavalierin gentile,
Siete il mio dolce amor.
CAV.
Ah, che piacer simile
Non ho provato ancor.
ART.
Ebbi pietà di voi,
Misero pazzo allor.
CAV.
Pazzo non fui, signora...
ART.
Come! si nega? olà.
CAV.
Sì, sono pazzo ancora,
Questa e la verità.
ART.
Pazzo non siete.
Voi mi piacete.
CAV.
Mi sanerete,
Se mia sarete.
a due
Il nostro cuore
Pietoso amore
Consolerò.
ART.
Ma voi, senza cervello,
Perchè di Montebello
Contessa dire a me?
CAV.
E voi perché volere
Negar che il cavaliere
Io fossi? Ma perché?
ART.
Voi eravate pazzo.
CAV.
Codesto è uno strapazzo.
ART.
Negate se potete,
Ed io vi lascerò.
CAV.
Dirò come volete,
E lo confermerò.
ART.
Cavalierino,
Caro, carino.
CAV.
Ah madamina,
Bella, bellina.
a due
Leva il cervello
Quel bambinello
Del dio d'Amor;
Ma lieto rende
Con sue vicende
La pace al cor. (partono)



SCENA DECIMA

Sala illuminata con tavola per la cena.

Erminia, Celindo, don Pacchione, don Ramerino, Rosalba e Servi.

PACC.
Dove si son ficcati
Artimisia ed il pazzo?
L'arrosto si consuma,
La zuppa si raffredda e l'ora è tarda,
E la fame viepiù divien gagliarda.
ROS.
Eccoli.
PACC.
Grazie al cielo!
Che levino l'arrosto. (ad un Servo)
A tavola ciascun prenda il suo posto. (agli altri Compagni)



SCENA ULTIMA

Artimisia, il Cavaliere e detti.

ART.
Scusate, amici, ecco la parca cena
Che al solito s'appresta.
PACC.
Andiamo, via, che siate benedetta.
ART.
Ma prima che ceniamo,
Il cavaliere a cui
Tornata è nel cervello la ragione,
Vuol far la descrizione
Del mal della pazzia ch'egli ha provato,
E del rimedio che l'ha risanato.
PACC. 
No, per amor del cielo.
CEL.
Eh sì, sentiamo.
PACC.
Signora, son due ore che aspettiamo.
ART.
Cavalier, fate presto.
CAV.
Che dirò?
ART.
Che siete stato pazzo.
CAV.
Sì, signori.
ART.
Che non conoscevate
Più voi medesmo, né gli amici vostri.
CAV.
È ver.
ART.
Che vi pareva
D'essere diventato una gran bestia.
CAV.
Questo poi...
ART.
Lo negate?
CAV.
Eh, non lo nego.
ART.
Or chi vi risanò dite, vi prego.
CAV.
D'Artimisia la mano,
Signori miei, mi fe' ritornar sano.
PACC.
È finita l'istoria?
ART.
È terminata.
ERM.
Signora zia garbata,
Mi rallegro con lei.
CEL.
Anch'io con tal pozion risanerei.
ART.
Animo dunque, o cari,
Fate quel che ho fatt'io;
Coraggio vi darà l'esempio mio.
Sposatevi alla fine;
Ad Erminia di madre in luogo io sono.
Fatelo, e cento doppie anch'io vi dono.
CEL.
Che dite? (ad Erminia)
ERM.
Io non dissento.
CEL.
Ecco, mio ben, la destra.
ERM.
Ecco la mano.
Le cento doppie? (ad Artimisia)
ART.
Io non prometto invano.
PACC.
Anche codesta è fatta.
E non si mangia mai?
ART.
Sì, don Pacchione,
Ora si mangerà. Tutti contenti
Voglio che siate alfin. Celindo, Erminia,
Inclinati agli amori,
Goderanno il piacer de' loro ardori.
Il cavalier felice
Sarà nell'allegria,
Risanato da me dalla pazzia.
Don Ramerin col gioco è soddisfatto.
Mangerà don Pacchion qualche buon piatto.
Rosalba, che sol gode
Gli altri allegri veder, si rasserena.
Siamo tutti contenti. Andiamo a cena.


CORO

PACC.
Che gusto, che diletto,
È quello del mangiar!
ROS.
} a due
Del gusto dell'affetto
Maggior non si può dar.
LIS.
RAM.
Il gioco è il re de' gusti.
ROS.
Mi gusta l'altrui ben.
CAV.
Il gusto che mi piace
È sempre giubilar.
ART.
Il gusto che mi piace
È gli altri tormentar.
TUTTI
Ciascuno godi,
Suo gusto lodi,
E tornisi a cantar:


De' gusti disputar cosa è fallace;
Non è bel quel ch'è bel, ma quel che piace.

Fine del Dramma.

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