SHOCK


WILLIAM SHAKESPEARE









LA BISBETICA ADDOMESTICATA

Commedia in 5 atti



Traduzione e note di Goffredo Raponi







Titolo originale: “THE TAMING OF THE SHREW”
NOTE PRELIMINARI


1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello dell’edizione curata dal prof. Peter Alexander (William Shakespeare, “The Complete Works”, Collins, London & Glasgow, 1960, pagg. XXXII- 1376) con qualche variante suggerita da altri testi, in particolare quelli delle edizioni separate dell’“Arden Shakespeare” a cura di H.F. Brooks e E. Jenkins (London 1951) e della più recente edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la Clarendon Press, Oxford, U.S.A., 1994, pagg. XXXIX-1274; quest’ultima contiene anche “I due nobili cugini” (“The Two Kinsmen”) che manca nell’Alexander.
2) Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore, di suo arbitrio, laddove gli sia sembrato che lo richiedesse una miglior comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente ordinata ed intesa (Il traduttore è convinto della irrappresentabilità di Shakespeare sulle scene del teatro moderno, e che l’unico modo di gustarne genuinamente la parola e il mondo poetico è la lettura).

3) Il metro è l’endecasillabo sciolto - il metro italiano che più d’ogni altro s’avvicina al pentametro giambico del “blank verse” inglese -, intercalato da settenari; ad altro metro s’è fatto ricorso per citazioni, strofette, canzoni, ecc., quando si è inteso di riprodurre in qualche modo lo scarto stilistico presente nel testo.

4) I nomi dei personaggi sono stati, per quanto possibile, italianizzati.

5) Il traduttore riconosce di essersi avvalso di traduzioni precedenti, in particolare dalla prima versione poetica di Giulio Carcano (Sansoni,1858) a quelle di Cesare Vico Lodovici (Einaudi,1960), Gabriele Baldini (Garzanti, 1980-88) e Giorgio Melchiori (Mondadori, 1976-91); dalle quali ha preso in prestito, oltre all’interpretazione di passi non ben chiari, intere frasi e costrutti: di tutto dando opportuno credito in nota.
NOTA INTRODUTTIVA

La commedia “The Taming of the Shrew” appartiene al primo periodo, il periodo cosiddetto “sperimentale”, della produzione teatrale di Shakespeare.(I) Essa apparve pubblicata a stampa per la prima volta nell’in-folio del 1623, ma incerta è la data di produzione: la critica più recente la colloca prima del 1592, e cioè prima della chiusura dei teatri di Londra a causa della peste e del conseguente scioglimento della Compagnia degli attori del conte di Pembroke.
Questa datazione è stata per lungo tempo controversa, per due ragioni: la prima è che il titolo non figura tra i lavori attribuiti a Shakespeare in quella specie di antologia/panorama della letteratura inglese contemporanea che sono i “Palladis Tamia” (“I doni di Minerva”) del 1598; la seconda è che, alla riapertura dei teatri, comparve sulla scena dei teatri londinesi una commedia, d’autore anonimo, dal titolo “The Taming of a Shrew”, ciò che fece arguire che da quella Shakespeare avesse tratto la sua. Ma una più approfondita analisi dei due testi ha condotto alla conclusione opposta: che cioè l’anonima “The Taming of a Shrew” non fosse che una rozza e fraudolenta imitazione dell’originale shakespeariano, con alcune varianti nella collocazione scenica (nell’antica Atene, invece che nella Padova contemporanea), nella caratterizzazione dei personaggi, nell’epilogo della vicenda del calderaio Sly; oltre, soprattutto, alla disparità del livello stilistico.
La struttura della commedia è basata sul tipico gioco del “teatro nel teatro”: un prologo/introduzione crea il presupposto, la “cornice” per una vicenda “interna” alla situazione da esso fittiziamente creata. In questo prologo, il calderaio Cristoforo Lenza (Sly), trovato ubriaco mentre dorme su una panca all’esterno di un’osteria, è trasportato di peso in casa di un signore che ci si vuol divertire. Lenza, al risveglio, ritrovatosi in un ambiente lussuoso, circondato da servi premurosi, si crede diventato veramente il gran signore che questi gli vogliono far credere, e in questa veste lo si fa assistere ad una recita in cui una ragazza bisbetica e indiavolata finisce per essere addomesticata da un marito più cocciuto e più deciso di lei.
È il tema del mendicante/signore, che si rifà palesemente ad una delle novelle della famosa raccolta araba delle “Mille e una notte”, laddove il califfo Harun-el-Ashid fa lo stesso gioco col mendicante Abu Assan. È dubbio però che Shakespeare la potesse conoscere: una versione latina della raccolta circolava in Inghilterra all’epoca, ma Shakespeare, come testimonia il suo amico Jonson, “sapeva poco di latino”. L’ipotesi più probabile - secondo il Melchiori (II) - è che “l’autore o gli autori ne avessero sentita una versione orale”.(III)
La seconda vicenda, quella “interna”, e che forma il corpo della commedia, è presentata come una recita allestita nel palazzo in onore del calderaio/signore: una bizzosa e selvatica Caterina è conquistata e addomesticata dal giovane Petruccio, cacciatore di doti, venuta a Padova da Verona “per trovare di che accasarmi bene”. Il tutto in un intreccio, che riecheggia, molto ben combinato, il tema dei “Suppositi” di Lodovico Ariosto (1509), che gli inglesi conoscevano nella traduzione di George Gascoigne (1566), e quello della ballata popolare “A merry jest of a shrew and a curst wife”, “Un allegro scherzo a una moglie bisbetica e perversa”.
Shakespeare lascia senza conclusione l’episodio introdotto dal prologo, che invece il copione della sua falsa copia sopraddetta conclude con una scena finale, dove il calderaio Sly (il nome è lo stesso nei due lavori) è ritrasportato di peso nel luogo dove era stato trovato a dormire ubriaco al principio, e dal dialogo tra lui e uno sguattero, che lo sveglia, si capisce - e solo allora - che tutto quello che è apparso sulla scena non era che un sogno; dal quale il calderaio trae la sua morale: di aver imparato, cioè, i modi per “addomesticare” una donna bisbetica, e si propone di applicare subito la ricetta alla moglie, nel caso che questa, al suo ritorno a casa, faccia tanto da alzare la voce per la nottata da lui trascorsa fuori.

* * *

La commedia è una di quelle che hanno avuto più fortuna sulle scene inglesi, sia pure in versioni diverse e con infiniti rimaneggiamenti; egual successo ha avuto fuori d’Inghilterra dove però - come in Italia - ha trovato in attori e registi la tendenza ad esagerare la sua vena farsesca, conferendo al personaggio di Petruccio una brutalità diversa dalla flemma scanzonata del maschio sicuro di farcela, e a Caterina la trivialità innaturale della “femmina da domare” (dove di “domare” non si tratta, nemmeno del titolo), invece che la femminile bizzarria di una fanciulla bella e sensibile da “addomesticare”: il che ha in ogni caso finito col sottrarre alla rappresentazione gran parte del suo respiro poetico e del suo valore psicologico.
PERSONAGGI




A) Del prologo:

UN SIGNORE
CRISTOFORO LENZA, calderaio ubriacone
UN’OSTESSA
Un paggio - Alcuni commedianti - Cacciatori - Servi del signore

B) Della “Bisbetica addomesticata”
BATTISTA, ricco gentiluomo di Padova

VINCENZO, vecchio gentiluomo di Pisa
LUCENZIO, suo figlio, innamorato poi marito di Bianca

PETRUCCIO, gentiluomo di Verona, pretendente poi marito di Caterina

GREMIO
ORTENSIO, pretendenti di Bianca

TRANIO
BIONDELLO, servitori di Lucenzio

GRUMIO
CURZIO, servitori di Petruccio

UN PEDANTE di Mantova

CATERINA
BIANCA, figlie di Battista

Una vedova - Un sarto - Un merciaio - Servi di Battista e di Petruccio


SCENA: a Padova e nella casa di campagna di Petruccio
PROLOGO

SCENA I - Davanti a un’osteria, nei dintorni di Padova.
Entra, barcollando ubriaco, LENZA, e dietro l’OSTESSA
LENZA - Vi metto a posto, io, parola mia!

OSTERIA - Un paio di manette
è quello che ci vuole a te, straccione!

LENZA - A me straccione? Sei tu una baldracca!
Straccioni i Lenza?… Stùdiati la storia:
siamo venuti qui con re Riccardo,
sì, Riccardo il Conquistatore, ohé!(1)
Perciò paucas palabras,(2)
lascia che il mondo giri e non seccarmi.(3)

OSTESSA - E i bicchieri ch’hai rotto chi li paga?

LENZA - Io no, nemmeno un soldo.
Va’, va’, santo Geronimo, a scaldarti
nel tuo letto di ghiaccio!(4)

OSTESSA - Beh, allora so io qual è il rimedio:
debbo andare a cercare il capo-guardie.(5)
LENZA - O capo, o sottocapo, o sovraccapo,
saprò rispondergli conforme a legge,
senza scompormi, bella, d’un sol pollice!
Che venga pure, con tanti saluti!

(Si sdraia su una panca e s’addormenta)
Corni da caccia all’interno. Entra un SIGNORE di ritorno
dalla caccia, con seguito di cacciatori e servi.
SIGNORE - Capocaccia, ti raccomando i cani,
abbine buona cura.
Il bracco Merriman, povera bestia,
sbava; e tienimi Artiglio sempre in coppia
con la bracca, quella che abbaia cupo.
Hai visto Argento come ha lavorato
proprio all’estremità di quella siepe,
quando la preda s’era già perduta?
Eh, non mi priverei di quella bestia
nemmeno al prezzo di venti sterline!

PRIMO CACC. - Bellomo vale almeno quanto lui,
signore: è stato lui oggi a dar voce
quando la traccia ormai era svanita
e lui, da un debolissimo sentore,
ha pur saputo scovarla due volte.

SIGNORE - Macché! Fosse Ero come lui veloce,
ne varrebbe di lui almeno dieci.
Piuttosto cerca di nutrirli bene
e di star dietro a tutti, ché domani
voglio cacciar di nuovo.

PRIMO CACC. - Sì, signore.

SIGNORE - (Scorgendo Lenza addormentato sulla panca)
E qui che c’è?… Un morto?… Un ubriaco?…
Guarda un po’ se respira?
PRIMO CACC. - Sì, respira.
Se non avesse in corpo tanta birra
a riscaldarlo un po’,
questo letto sarebbe un po’ freddino,
a dormirci così profondamente.

SIGNORE - Che mostruosa bestiaccia!
Se ne sta lì sbracato, come un porco!
O tetra morte, come la tua immagine
è brutta e ripugnante!… Beh, signori,
quasi quasi con questo ubriacone
mi viene voglia di spassarmi un po’.
Che direste di prenderlo di peso
e di metterlo a letto a casa mia,
sì che quando si sveglia
si ritrovi in un signorile arnese,
con anelli alle dita, già servita
al letto un’abbondante colazione
con tanti bravi servitori intorno?
Non credete anche voi
che ciò potrebbe indurre lo straccione
a pensar di non esser più se stesso?

PRIMO CACC. - Parola mia, signore,
credo, sì, che sarà proprio così.(6)

SECONDO CACC. - Eh, certo che gli sembrerà assai strano
tutto quello che vede intorno a sé
quando si sveglierà.

SIGNORE - Né più e né meno
che come in un bel sogno ammaliatore,
o una fantasmagorica illusione.
Bene, allora prendiamolo di peso,
e conduciamo bene questa burla.
Trasportatelo con delicatezza
nella più bella mia stanza da letto,
ed appendete intorno, alle pareti,
tutti i miei quadri con scene lascive;
profumate la sua sudicia testa
con acqua di lavanda intiepidita
e bruciate la legna più odorosa
a ingentilire l’aria della camera.
Procuratemi poi, pel suo risveglio,
musici pronti ad intonar per lui
soavi, celestiali melodie;
se appena accenni di voler parlare,
siate subito pronti, tutti intorno,
a domandargli, proni e riverenti:
“Vostro onore comanda?”. Ed uno, subito,
lì accanto, a presentargli, premuroso,
un bacile d’argento con dell’acqua
profumata di rose, e fiori intorno;
un altro gli presenterà la brocca,
un terzo una pezzuola damascata,
sussurrandogli: “Vostra signoria
vuol degnarsi di tergersi le mani?”
Un altro ancora gli si faccia avanti
con uno dei miei abiti più belli
e gli domandi quale abbigliamento
egli intenda indossare per quel giorno;
qualcun altro gli dica dei suoi cani,
del suo cavallo, e quanto rattristata
sia la sua dama di saperlo a letto
a causa della sua infermità,
dandogli a credere che è stato vittima
di un accesso di folle alienazione;
e se protesterà
dicendo d’essere quello che è,
gli direte che sogna,
perché egli è nient’altro che un signore
ricco e potente. Fate tutto questo,
gentili amici, ma con molto garbo,
e sarà uno spasso sopraffino,
se condotto con gran naturalezza.

PRIMO CACC. - Vi posso garantire, monsignore,
che la reciteremo tanto bene,
che non potrà non essere convinto
d’essere quel che gli diremo noi.

SIGNORE - Sollevatelo con delicatezza
e portatelo a letto; e al suo risveglio,
faccia ciascuno bene la sua parte.

(Lenza è portato via. Trombe di postiglione all’interno)
(A un altro servo)
Ehi, tu, compare,
va’ un po’ a vedere cos’è questa tromba.

(Esce il servo)
Probabilmente un gentiluomo in viaggio
che passando di qui, vuol fare sosta
e riposarsi.

(Rientra il SERVO)
Beh, di chi si tratta?

SERVO - Commedianti, signore,
che vengono ad offrire i lor servigi
a vostra signoria.

SIGNORE - Falli passare.

Esce il servo e rientra subito con i COMMEDIANTI
Ebbene, amici, siate i benvenuti.

COMMEDIANTI - Troppo buono, signore.

SIGNORE - Vi fermate stanotte qui con noi?

PRIMO COMM. - Se non dispiace a vostra signoria
gradire il nostro rispettoso omaggio…

SIGNORE - Ma certo, certo! Molto volentieri!
(Avvicinandosi a uno di loro)
Questo giovine qui, me lo ricordo:
una volta l’ho visto recitare
nella parte del figlio primogenito
d’un certo contadino. Eri bravissimo
a far la corte a quella nobildonna…
Non ricordo il tuo nome,
ma quella parte ti stava assai bene,
e la rendevi con naturalezza.

SECONDO COMM. - Vostro onore, mi par che fosse Soto
il personaggio cui volete alludere.(7)

SIGNORE - Esatto: e la facesti egregiamente.
Bene, siete arrivati proprio a punto:
ho giusto per le mani un certo scherzo
per il quale la vostra maestria
potrà riuscirmi assai bene d’aiuto.
Ho dentro casa un certo gentiluomo
che vi vedrà stasera recitare;
non son troppo sicuro, tuttavia,
che riusciate a tenervi dal ridere
sbirciando il suo bizzarro atteggiamento
(perché suo onore non s’è mai trovato
a veder recitare una commedia),
e non vi abbandoniate a qualche eccesso
d’ilarità, perché lo offendereste:
ché, se vi vede ridere, badate,
signori miei, diventerà una bestia.

PRIMO COMM.- Non abbiate paura, vostro onore,
sapremo bene come contenerci
foss’anche il tipo più buffo del mondo.

SIGNORE - (Ad un servo)
Tu, ragazzo, accompagnali in dispensa,
e siano accolti tutti cordialmente
di modo che non manchi loro nulla
di quanto possa offrire la mia casa.

(Esce il servo con i commedianti)
(A un altro servo)
Tu, invece, corri da Bartolomeo,
il mio valletto, e digli da mia parte
che si vesta senz’altro da gran dama;
ciò fatto, l’accompagnerai tu stesso
nella camera dov’è l’ubriaco,
e volgendoti a lui, avanti a questi,
con molto ossequio lo chiami “Signora”;
non senza averlo ammonito in anticipo
da parte mia, che se vuol conservare
il mio favore, si deve sforzare
a darsi quei leziosi atteggiamenti,
quelle vaghe movenze sdolcinate
che avrà osservato nelle nostre dame
verso i loro mariti,
e ad usarle con quell’ubriacone,
sussurrandogli dolci paroline
e chiedendogli, con profondi inchini:
“Che può desiderare vostra grazia
perché sua moglie e sua umile sposa
possa mostrargli quanto gli è devota
e quanto grande è l’amor che gli porta?”
E lì, con le più tenere effusioni
di dolci abbracci e baci tentatori,
poggiato il capo sul petto di lui,
pioverà - gli dirai - lacrime a scroscio,
siccome sopraffatta dalla gioia
di veder risanato il suo signore
che per sette lunghi anni
s’era fissato d’esser niente più
che un misero straccione puzzolente.
E se a quel punto il mio bravo ragazzo
fosse privo del dono femminino
di rovesciare lacrime a comando,
gli sarà sufficiente una cipolla
che, ben celata dentro un fazzoletto,
appena appena avvicinata agli occhi
stimolerà l’umore lacrimale,
anche quando neppur se n’abbia voglia.
Bada a sbrigar tutta questa faccenda
quanto più presto puoi;
ti darò presto ulteriori istruzioni.

(Esce il servo)

So che il ragazzo sa bene imitare
la grazia, il porgere, la camminata
e tutti i gesti d’una gentildonna.
Non vedo proprio l’ora
di sentirlo che chiama suo marito
quell’ubriaco, e di vedere i servi
se sapranno tenersi dalle risa
nel profondersi in reverenti inchini
davanti a quel villano zoticone.
Vado a dar loro ancor qualche consiglio:
è da sperare che la mia presenza
valga a frenare eccessi di gaiezza
che rischierebbero di sciupar tutto.

(Esce)
SCENA II - Camera da letto in casa del signore
La scena è divisa in due piani: in quello superiore sta LENZA circondato da SERVI recanti vestiti, un lavabo, una brocca ed altri oggetti da toletta; il piano inferiore è vuoto: si riempirà dei commedianti al termine della scena.

Entra il SIGNORE
LENZA - Un bicchiere di birra qua, perdio!

PRIMO SERVO - Vossignoria non gradirebbe meglio
un bicchiere di Porto?

SECONDO SERVO - O preferisce forse vostro onore
gustar dolci conserve?

TERZO SERVO - Qual vestito gradisce vostro onore
indossare quest’oggi?

LENZA - “Vostro onore”, “vossignoria”, un cànchero!
Io son Lenza Cristoforo,
senza nessun “onore” e “signoria”!
Del vostro Porto, mai bevuto un goccio
in vita mia, e quanto alle conserve,
se volete passarmene qualcuna,
datemi quelle di carne di manzo.
Eppoi smettetela di domandarmi
che abito desidero indossare,
ch’io farsetti non ne posseggo più
di quante schiene ho da ricoprire,
né calze più di quante ho gambe e stinchi,
né scarpe più di quanti io abbia piedi,
anzi, talvolta, ho più piedi che scarpe,
oppure ho tali scarpe dove i piedi
occhieggiano attraverso la tomaia.

SIGNORE - Stornino i cieli dalla vostra mente
questa forma d’umore delirante!
Possibile che un uomo come voi,
sì, potente, di sì alti natali
e ricco, e d’alta stima circondato,
debba lasciarsi ancora possedere
da un siffatto triviale e sciocco spirito?

LENZA - Ehi, oh! Non crederete ch’io sia matto!
Che! Io non sarei più Lenza Cristoforo,
figlio del vecchio Lenza,
conosciuto da tutti a Burton-Heath,
venditore girovago d’origine,
cardatore di lana per mestiere,
esibitore d’orsi all’occasione,
e mastro calderaio nel presente?
Beh, domandatelo a Marianna Hacket,
la grassoccia birraia di Wincòt,
se lei conosce o no Lenza Cristoforo:
e se quella non vi spiattella subito
che m’avanza quattordici scellini
per della birra forte (8) che ho bevuto
da lei, dite ch’io sono il farabutto
più bugiardo della cristianità.
(Un servo gli reca un boccale di birra)
Ecco, così va bene!

TERZO SERVO - Oh, invece è proprio questo
di cui s’affligge la vostra signora.

SECONDO SERVO - E che rattrista tanto i vostri servi.

SIGNORE - Da qui proviene che i vostri parenti
disertino così la vostra casa;
è questo vostro strano vaneggiare
che da voi li allontana.
Ma rifletti, mio nobile signore,
ai tuoi natali, richiama alla mente
gli antichi tuoi pensieri ora banditi,
e bandiscine queste fantasie
di volgare abiezione. Intorno a te,
guarda, i tuoi servi son pronti a un tuo cenno,
ciascuno nella sua propria mansione.
Non gradiresti forse un po’ di musica?
(Musica di strumenti a corda con coro)
Eccola, ascolta: per te suona Apollo,
e cantan venti rossignoli in gabbia.
O forse avresti voglia di dormire?
Ti appresteremo subito un giaciglio
più soffice del voluttuoso letto
che fu allestito un di’ per Semiramide.(9)
Di’ che ti piace invece passeggiare,
e noi cospargeremo il tuo cammino
di giunchi. O preferisci cavalcare?
I tuoi cavalli saranno bardati
con gualdrappe trapunte d’oro e perle,
e così tutti i loro finimenti.
O ameresti cacciare col falcone?
Avrai per te falconi
capaci di librarsi alti nel cielo
più dell’allodola che canta l’alba.
Vuoi cacciare coi cani?
Le tue mute sapranno rintronare
coi lor latrati la volta del cielo,
risvegliandone l’eco
dalle concave plaghe della terra.

PRIMO SERVO - Se poi gradisci cacciare a cavallo,
sappi che i tuoi levrieri
sono veloci ed hanno il fiato lungo
più dei cervi, e più ancora dei caprioli.

SECONDO SERVO - Ti piacciono i bei quadri?
Ti manderemo subito a cercare
Adone sulla riva d’un ruscello
con Citerea nascosta dietro ai càrici
che paiono agitarsi al suo respiro
quasi che palpitassero d’amore,
come fanno scherzando con la brezza.

SIGNORE - Ti mostreremo Io quand’era vergine
e come, con inganno, fu rapita:
una scena dipinta così bene
da sembrar che succeda lì per lì.(10)

TERZO SERVO - O Dafne in fuga nell’aspro roveto,
con le gambe graffiate dalle spine,
raffigurata sì vera e palpabile
da far giurare a chiunque la veda
che quello che le sgorga è sangue vero;
ed Apollo che piange rattristato,
al vederla, con tanta maestria
son ritratti quel sangue e quelle lacrime.

SIGNORE - Tu sei un gran signore, e non sei altro,
ed hai per moglie una nobile dama
molto più bella di qualsiasi donna
di questa nostra decadente età.

PRIMO SERVO - E fino a tanto che sul suo bel volto
non scaturissero, invidiosi flutti,
le molte lacrime per te versate,
ella era del mondo la più bella
e resta tuttavia insuperata.

LENZA - Sono dunque un signore,
ed ho per me la dama che mi dite?
Ma sogno, od ho sognato
quello che sono stato fino ad ora?
Eppure io non dormo.
Io vedo, ascolto, parlo. Intorno a me
sento nell’aria soavi profumi,
e sento morbido dovunque tocco.
Sulla mia vita, io sono per davvero
un gran signore e non un calderaio,
né Cristoforo Lenza tantomeno.
Ebbene, allora, conducete qua
la nostra dama che possiam vederla,
e portateci ancora un bel boccale
di birra bionda, dal gusto leggero.

SECONDO SERVO - Vuol compiacersi vostra signoria
di lavarsi le mani?… Ah, quale gioia
veder che siete ritornato in senno,
e cosciente di nuovo di voi stesso!
Per quindici anni siete stato in sogno;
e quando, a tratti, vi risvegliavate,
era come se foste sempre in sonno.

LENZA - Quindici anni?… Un bel sonno, in fede mia!
E non ho mai parlato, in questo tempo?

PRIMO SERVO - Oh, sì, certo, signore, parlavate,
ma sempre con parole assai sconnesse;
perché, malgrado vi trovaste a letto
in una camera così sontuosa,
insistevate a dire che qualcuno
v’aveva messo fuori della porta,
ed avevate sempre a che ridire,
delirando, con una certa ostessa:
e che l’avreste citata in giudizio,
perché i boccali ch’ella vi serviva
erano fatti di rozza terraglia,
e non quelli ufficiali con il bollo;
e vi si udiva urlare qualche volta
il nome di una tal Cecilia Hacket…

LENZA - Sì, la ragazza di quell’osteria.

TERZO SERVO - Ebbene, voi, signore,
non avete mai visto e conosciuto
né l’osteria, né quella tal ragazza,
né altra gente che nominavate,
come Stefano Lenza,
il vecchio greco Gianni Pennichella,
Pietro Turfo ed Enrico Pimpernella,
ed ancora venti altri come questi,
tutta gente mai esistita al mondo,
e che nessuno al mondo ha mai veduto.

LENZA - Beh, grazie a Dio che son guarito.

TUTTI - Amèn.
Entra il PAGGIO travestito da dama, con altri domestici, uno dei quali porge a Lenza un boccale di birra.
LENZA - Grazie, ragazzo. Non ci avrai perduto.

PAGGIO - Come sta il mio nobile signore?

LENZA - Bene, perbacco, qui trattano bene.
E mia moglie dov’è?

PAGGIO - Son qui, signore. In che posso servirvi?

LENZA - Diamine, sei mia moglie,
e non mi chiami nemmeno “marito”?
“Signore” fammelo dire dai servi,
ma per te, vivaddio, sono il tuo uomo!

PAGGIO - Voi siete mio marito e mio signore,
mio signore e marito, ed io son qui,
in umile obbedienza, vostra moglie.

LENZA - Lo so.
(Rivolto al signore)
Ma io come devo chiamarla?

SIGNORE - Chiamatela “madama”.

LENZA - Madama Alice o madama Giovanna?

SIGNORE - Solo “madama”, e basta.
Così chiaman la moglie i gentiluomini.

LENZA - Bene. Madama moglie,
mi dicon qui che ho dormito e sognato
per quindici anni e più, tutto di seguito.

PAGGIO - Infatti, sì, signore,
e a me, fuor dal tuo letto, derelitta,
è sembrato che tutto questo tempo
durasse almeno trenta.

LENZA - Certo, è tanto…
Servi, lasciateci, lei e me soli.
Spògliati, su, madama, vieni a letto.

PAGGIO - O mio tre volte nobile signore,
ch’io vi supplichi di scusarmi ancora
per una notte o due:
i vostri medici sono rigorosi;
hanno prescritto perentoriamente
ch’io mi debba astener dal vostro talamo
perché c’è il rischio d’una ricaduta
del vostro male, appena mo’ passato.
Voglio sperar che questo sia ragione
sufficiente a tenermi per scusata.

LENZA - Sì, tanto sufficiente,
che a stento saprò attendere sì a lungo:
ma non vorrei nemmeno ricadere
a far quei sogni… Bene, aspetterò,
a dispetto del sangue e della carne.

Entra un MESSO

MESSO - I vostri commedianti, signoria,
saputo della vostra guarigione,
son qui per recitare in vostro onore
un’allegra commedia;
i vostri medici stimano, in realtà,
che a ridurre di gelo il vostro sangue
fu un eccesso d’umore malinconico;
e la malinconia, così essi dicono,
è la nutrice della paranoia.
Han pensato perciò che sia giovevole
al vostro stato di salute assistere
a un’allegra commedia,
per disporvi lo spirito al piacere
e a quel senso di gioia della vita
che tien lontani da ogni malanno,
e perciò la prolunga. Che ne dite?

LENZA - Oh, certo che mi va. Facciano pure.
Una commedia, hai detto? E che cos’è?
Qualcosa che su e giù può somigliare
al ballo della notte di Natale,
oppure a qualche trucco di pagliacci?

PAGGIO - No, no, signore, è roba più piacevole.

LENZA - Roba? Che roba, roba da mangiare?

PAGGIO - Una specie di storia…

LENZA - Bene, bene!
Voglio vederla. Su, madama moglie,
vieni vicino a me,
“lascia pure che il mondo
“se ‘n vada a girotondo,
“ché non sarem in fondo
“più giovani così né io né te”.
Siedono. Uno squillo di tromba annuncia l’inizio della rappresentazione nel piano inferiore, dove entrano i commedianti.
ATTO PRIMO


SCENA I - Padova, una piazza.
Tromba. Entrano LUCENZIO e TRANIO
LUCENZIO - Tranio, poi che il mio grande desiderio
di visitare un dì la bella Padova,
culla dell’arti, m’ha portato infine
a star nella ferace Lombardia,(11)
giardino ameno della grande Italia;
e che grazie all’affetto di mio padre
e al suo consenso mi ritrovo armato
insieme del suo buon consentimento
e dalla tua gradita compagnia,
mio fedele e devoto servitore,
fermiamoci ora qui,
e vediamo di dar felice inizio
ad un corso di studi liberali.
Pisa, famosa per la serietà
della sua gente, m’ha dato i natali,
dopo averli già dati al padre mio
Vincenzo, stipite dei Bentivoglio,
gran mercante di traffici nel mondo,
e da me, che son figlio di Vincenzo,
allevato a Firenze, ci si aspetta
che avveri tutte le grandi speranze
in lui riposte, e con virtuose azioni
abbellisca la sua buona fortuna.
Perciò, Tranio, nel corso dei miei studi
io voglio praticare la virtù
ed applicarmi a studiare più a fondo
quella branca della filosofia
che studia come la felicità
s’acquista praticando la virtù.(12)
Dimmi ora il tuo pensiero,
perch’io, lasciata Pisa,
mi sento adesso a Padova come uno
ch’abbia lasciato una bassa palude
per tuffarsi nelle profondità
e vuol spegner a sazietà la sete.

TRANIO - Padrone mio gentile, se vi piaccia,(13)
io condivido in pieno il vostro dire.
Son contento, perciò,
che persistiate tanto nel proposito
di abbeverarvi alle grandi dolcezze
della filosofia. Solo vi prego,
nell’ammirare, sì, questa virtù
nonché la sua morale disciplina,
che non ci riduciamo a degli stoici,
ad esseri sì rigidi e insensibili,
e devoti ai precetti di Aristotile
da abiurare e bandir da noi Ovidio.
Dissertate di logica
coi vostri conoscenti; la retorica
praticatela nel parlar comune;
della musica e della poesia
servitevi per ricrearvi l’animo;
di matematica e di metafisica
prendetene quel tanto
che possa digerire il vostro stomaco.
Non c’è vero profitto
dove non c’è piacere nell’apprendere.
In breve, signor mio, studiate pure,
ma solo quel che più vi torna a genio.

LUCENZIO - Un ottimo consiglio, Tranio, grazie.
Biondello, se tu fossi già approdato,(14)
potremmo già da ora sistemarci,
provvedendoci d’un alloggio adatto
a intrattener gli amici che Padova
col tempo ci dovrà ben partorire.
Ma aspetta… Che cos’è questa brigata?

TRANIO - Padrone, alcuni han l’aria di venire
a darci il benvenuto qui in città.

Entrano BATTISTA, CATERINA, BIANCA, GREMIO, ORTENSIO.
Lucenzio e Tranio si fanno da parte ad ascoltare, non visti.
BATTISTA - (A Gremio e Ortensio)
Signori, basta, non m’importunate…
sapete ormai la mia ferma intenzione:
ossia di non concedere a nessuno
la mano della mia seconda figlia
prima d’aver maritato la prima.
Se uno di voi due vuol Caterina,
poiché io vi conosco bene entrambi
e voglio bene all’uno come all’altro,
avrà da me licenza
di corteggiarla a suo proprio talento.

GREMIO - (A parte)
Sì, di portarla sopra la carretta!(15)
È troppo spigolosa, pel mio gusto.
(A Ortensio)
Ecco, Ortensio, per te: vuoi una moglie?

CATERINA - (A Battista)
Signor padre, vi prego,
avete voglia di tenermi qui
a zimbello di questi spasimanti?

ORTENSIO - “Spasimanti”, ragazza? Che intendete?
Per voi non ci saranno spasimanti
fino a tanto che il vostro bel carattere
non diverrà più mite e meno arcigno.

CATERINA - Oh, per questo, signore,
non vi dovete dare alcun pensiero:
dentro di me una simile idea
non si trova nemmeno a mezza strada;(16)
e seppure vi fosse già arrivata,
siate pur certo che sua prima cura
sarebbe di strigliarvi bene il capo
con un treppiedi e impiastricciarvi il viso
per impiegarvi poi come pagliaccio.

ORTENSIO - Dio ci scampi da tali satanassi!

GREMIO - E così, Dio Signore, anche per me!

TRANIO - (A parte, a Lucenzio)
Padrone, attento che qui si profila
chi sa quale inatteso passatempo.
Quella ragazza o è matta da legare,
o è cocciuta come nessun’altra.

LUCENZIO - (A parte, a Tranio)
Nel silenzio dell’altra, per converso,
io vedo la mitezza ed il riserbo
di verginella. Zitti, ora ascoltiamo.

TRANIO - Ben detto. Stiamo zitti,
padrone, e assaporiamoci la scena.

BATTISTA - E a conferma immediata, miei signori,
di quel che ho detto, Bianca, torna a casa!
E ciò non ti dispiaccia, buona Bianca,
ché non devi pensare che per questo,
io ti ami di meno, figlia mia.

(Bianca piange)

CATERINA - Uh, uh, la cocchettina di papà!
E ficcàtele un dito dentro un occhio,
così almeno saprà perché piagnucola!(17)

BIANCA - Sorella, goditi il mio scontento.
Padre, umilmente io mi sottometto
al voler vostro. Miei soli compagni
saranno libri e strumenti di musica
da leggere e suonare per me sola.

LUCENZIO - Tranio, hai sentito? Ha parlato Minerva!

ORTENSIO - Signor Battista,(18) perché così aspro?
Mi duole assai che le nostre attenzioni
abbiano a procurar dolore a Bianca.

GREMIO - Perché volete tenerla reclusa,
signor Battista, per causa di lei,
per tal demonio d’inferno, e costringerla
ingiustamente a sopportar la pena
della sua malalingua?

BATTISTA - Miei signori,
inutile, ho deciso: Bianca, a casa!

(Esce Bianca)

E poiché so quanto ella si diletti
di musica e poesia,
farò venire e mantenere in casa
precettori per insegnar quell’arti
alla sua giovinezza. Anzi, se voi,
Ortensio, o anche il signor Gremio,
ne conosceste alcuno che si presti,
fatelo pur venire a casa mia;
con le persone di buona cultura
io sarò sempre prodigo e cortese,
al fine d’impartire alle mie figlie
la buona educazione.
E così vi saluto, miei signori.
Caterina, tu puoi restare. Io vado.
Ho ancor da dir qualche parola a Bianca.
(Esce)
CATERINA - Beh, credo di dover andare, anch’io,
o no?… Che! Sarò messa anch’io ad orario,
come se non sapessi da me stessa
che cosa prendere o lasciare, eh?

(Esce)

GREMIO - Vattene pure dalla tua versiera!
Son così deliziose le tue doti,
che nessuno qui pensa a trattenerti.
L’amore che portiamo ad esse, Ortensio,
non è poi tanto grande ed assoluto
che non possiamo star per alcun tempo
a far vento alle unghie con i pollici,(19)
e imporgli di restare un po’ a digiuno.
La nostra torta non è ancora giunta
al punto di cottura, sopra e sotto.
E perciò vi saluto. Se, comunque,
per amore della mia dolce Bianca,
mi capitasse d’incontrar qualcuno
capace d’impartirle un’istruzione
nelle materie da lei predilette,
lo indirizzo senz’altro da suo padre.

ORTENSIO - Ed io farò lo stesso, signor Gremio.
Ma una parola ancora tra noi, prego:
se la querela che ci fa rivali
non consente per sua stessa natura
nessuna trattativa fra noi due,
dovreste almen capire, riflettendoci,
ch’è interesse reciproco ed identico,
se vogliamo di nuovo aver accesso
alla bella di cui siamo invaghiti
ed aspirare speranzosamente
all’amore della vezzosa Bianca,
ingegnarci ad agire di conserta,
per ottener soprattutto una cosa.

GREMIO - E che cosa, di grazia?

ORTENSIO - Santo Dio!
Procurare un marito alla sorella.

GREMIO - Un marito? Dovete dire un diavolo.

ORTENSIO - Dico un marito.

GREMIO - Ed io ripeto un diavolo!
Come potete credere, Ortensio,
malgrado sia suo padre molto ricco,
che sia al mondo un uomo tanto stupido
da sposarsi con un inferno simile?

GREMIO - Evvia, Gremio, per quanto intollerabile
sia per la vostra e per la mia pazienza
sopportare le sue diavolerie,
diamine!, ci saranno pure al mondo,
a saperli trovare, dei minchioni
disposti a prenderla col suo denaro,
passando sopra a tutti i suoi difetti.

GREMIO - Sarà, ma non ci giuro. In quanto a me,
prenderla in moglie per aver la dote
sarebbe come farmi condannare
ad essere frustato ogni mattina
alla croce di Piazza del Mercato. (20)

ORTENSIO - Eh, sì, come voi dite,
c’è poca scelta in mezzo a mele marce.
Ma via, finché questo legale ostacolo
ci fa alleati, serbiamoci tali;
almeno fino a quando ser Battista
non trovi il modo, con il nostro aiuto,
di maritare la figlia maggiore,
sì che poi la minore, in conseguenza,
si renda disponibile a marito.
E allora noi torneremo rivali.
(Dolce Bianca, felice chi t’avrà!)(21)
Diciamoci a vicenda: “Buon successo!”
Chi è più veloce vincerà l’anello.
Che dite, signor Gremio?

GREMIO - Son d’accordo.
E darei volentieri il mio cavallo,
il migliore di Padova,
a quell’uomo che cominciasse a farle
seriamente la corte, e la portasse in fondo
fino a sposarla e portarsela a letto,
liberando da lei la casa. Andiamo.

(Escono Gremio e Ortensio)

TRANIO - Signore, ditemi, è mai possibile
che l’amore si possa impadronire
d’una persona, così, all’improvviso?

LUCENZIO - Eh, che fosse possibile o probabile,
Tranio, non l’ho creduto mai anch’io,
prima di accorgermi che invece è vero.
Ma vedi, mentre stavo poco fa
a guardar pigramente quella scena,
ecco che proprio in quel mio riguardare
così, svagatamente, come ho detto,
ho scoperto la forza dell’amore.
Ed ora, senza ambagi, ti confesso,
a te che sei a me discreto e caro
come Anna alla regina di Cartagine,(22)
che arderò, languirò fino a morirne,
se non potrò ottener per me l’amore
di quella mite e pudica fanciulla.
Che devo fare? Consigliami, Tranio,
so che ne sei capace;
e confortami, so che lo desideri.

TRANIO - Padrone mio, non è davvero il caso
ch’io mi dedichi a muovervi rampogna;
l’amore non si sradica dal cuore
coi rimbrotti, e se amore v’ha colpito,
non vi resta da far altro che questo:
Rédime te captùm quam queas minimo”. (23)

LUCENZIO - Buon consiglio, ragazzo, ti ringrazio.
Dimmi ancora, ti prego,
perché quello che dici mi soddisfa;
e so che quello che ne seguirà
non potrà che recarmene conforto:
il tuo consiglio è sempre giudizioso.

TRANIO - Tenevate i vostri occhi sempre fissi
sulla ragazza, e così intensamente,
padrone mio, che forse v’è sfuggito
il vero punto della situazione.

LUCENZIO - Oh, sul viso di lei
ho ravvisato una bellezza dolce,
la stessa che doveva avere in volto
la figliola di Agenore, se Giove
s’inginocchiò sulla sabbia di Creta,
umilmente, per chiederne la mano.(24)

TRANIO - E non avete notato nient’altro?
Ma non avete visto la sorella
come s’è messa a un tratto a strepitare,
levando tal tempesta di clamori
da riuscire a stento sopportabile
da umano orecchio?

LUCENZIO - Oh, Tranio,
guardavo le labbra di corallo
dell’altra muoversi, mentre il suo alito
imbalsamava tutta l’aria intorno;
e tutto quello che vedevo in lei
era dolce e divino agli occhi miei.

TRANIO - (Tra sé)
Diamine, allora è venuto il momento
ch’io lo scuota da tale incantamento!
(Forte)
Svegliatevi, padrone, ve ne prego!
Se veramente amate la ragazza,
e volete ottenerla, è necessario
mettere in opera e mente e spirito.
Sta di fatto, però, che la sorella
è a tal segno bisbetica e cocciuta,
che fino a quando il padre, come dice,
non sarà riuscito a liberarsene,
padrone mio, il vostro amato bene
è destinata a rimanere nubile
in casa sua, perch’egli l’ha reclusa
a scanso proprio d’essere assillato
dalle insistenze dei suoi aspiranti.
LUCENZIO - Ah, che padre crudele, Tranio, è quello!
Hai notato però quanta premura
si dava a procurarle, al fine d’istruirla,
precettori di buona levatura?
TRANIO - Eh, se non l’ho notato, mio signore!
Al punto ch’ho già in mente un certo piano…

LUCENZIO - Lo so, Tranio, ed immagino qual è.

TRANIO - Giuro su questa mano, mio signore,
che quel che abbiamo in mente voi ed io
si combaciano e fanno tutt’un fascio.

LUCENZIO - Dimmi tu prima il tuo.

TRANIO - Farvi credere voi un precettore,
e iniziare a insegnare alla ragazza.
Ed è, credo, la stessa vostra idea.

LUCENZIO - Infatti. Ma si può mandare a effetto?

TRANIO - Non mi pare possibile.
Perché chi potrà far la vostra vece,
e passare per tutti qui a Padova
per essere figlio di Vincenzo,
e tener casa, e seguire i suoi studi,
e intrattener gli amici al posto suo,
ed incontrare i suoi concittadini
che sono qui, e invitarli a banchetto?

LUCENZIO - Basta,(25) tranquillo, ho già pensato a tutto.
Noi due non siamo stati ancora visti
in casa di nessuno,
né può distinguersi dai nostri visi
qual’ è il padrone e quale il servitore.
Ne segue che possiamo far così:
che sarai tu il padrone, in vece mia,
terrai casa, decoro e servitù
né più né meno che se fossi io.
Io sarò qualcun altro:
un fiorentino, o un napoletano,
o un pisano di semplice estrazione.
Questa è l’idea. Così essa è già,
e così s’ha da mettere ad effetto.
E subito: su, togliti i tuoi abiti,
mettiti il mio cappello e il mio mantello;
Biondello, come arriva, ha da sapere
che dovrà essere tuo servitore.
Ma prima lo dovrò bene istruire,
che almeno sappia tenersi la lingua.
(Si scambiano i vestiti)

TRANIO - Oh, sì, senz’altro. In breve, mio signore,
visto che questo è il vostro gradimento
e ch’io sono tenuto ad obbedirvi
(vostro padre, al momento di lasciarci
tenne a ripetermi: “Sii servizievole
col mio figliolo”, se pure io penso
che intendesse in un ben diverso senso
la raccomandazione), devo dire
che son contento d’essere Lucenzio,
perché a Lucenzio, io, gli voglio bene.

LUCENZIO - E siilo anche, Tranio,
perché Lucenzio vuol bene a sua volta;
ch’io sia dunque tuo servo,
se questo valga a farmi aver la giovane
che m’ha ferito l’occhio al primo sguardo.

Entra BIONDELLO
Eccolo, il manigoldo!
Dove sei stato finora, compare?

BIONDELLO - Io, dove sono stato?… Voi, piuttosto…
(Notando Tranio vestito da Lucenzio)
Che novità son queste?
Vedo, padrone, che il collega Tranio
v’ha rubato il vestito… o voi a lui?
O ve li siete rubati a vicenda?

LUCENZIO - Vien qua, messere, non stiamo scherzando,
non è il momento; adatta il tuo contegno
perciò al momento. Il tuo collega Tranio,
si prende i miei vestiti ed il mio posto
per salvarmi la vita;
ed io, per farla franca, prendo i suoi;
e ciò perché a cagione di una lite
scoppiata appena ho messo piede a terra,(26)
ho ucciso un uomo, ed ora ho gran paura
d’esser riconosciuto dalla gente.
Mettiti al suo servizio,
comportandoti come si conviene,
mentr’io m’affretto a tagliare la corda,
per salvare la pelle. Hai bene inteso?

BRUNELLO - No, signore… nemmeno una parola.

LUCENZIO - E non ti venga di chiamarlo Tranio.
Tranio s’è trasformato ora in Lucenzio.

BRUNELLO - Beato lui! Fosse toccato a me!

TRANIO - Ne sarei lieto anch’io, ragazzo mio,
se questo desiderio tuo appagato
valesse a far che s’avverasse l’altro:
e cioè che Lucenzio s’abbia in moglie
la più giovane figlia di Battista.
Ma tu, messere, da questo momento,
non già per amor mio, ma per amore
del tuo padrone, in presenza d’estranei,
quali che siano, devi contenerti.
Quando son solo, per te sono Tranio,
ma in ogni altra occasione son Lucenzio,
il tuo padrone.

LUCENZIO - Bene, Tranio, andiamo.
Adesso non ti resta che una cosa
da far per me: recitare la parte
di un altro pretendente alla sua mano.
Non chiedermi perché, mi basti dirti
che ho buone ragioni e di gran peso.

(Escono)

Parlano, al piano superiore, i personaggi del Prologo(27)
PRIMO SERVO - (A Lenza)
Signore, vedo che chinate il capo.
La commedia non v’interessa, eh?

LENZA - Sì, per Sant’Anna! Buona roba! Certo!
Ce ne fanno sentire ancora un po’?

PAGGIO - Ma, sposo mio, è appena cominciata…

LENZA - Un super-eccellente pezzo d’opera,
madama moglie… Ma quando finisce?

(Siedono e seguono con attenzione)
SCENA II - Padova, davanti alla casa di Ortensio.
Entrano PETRUCCIO e il servo GRUMIO
PETRUCCIO - Verona, prendo per un po’ congedo
da te, per visitar gli amici miei
a Padova, e tra loro specialmente
il mio più amato e più fidato, Ortensio.
E questa credo sia la sua dimora.
Bùssagli, Grumio, bussa!… Bussa, dico!

GRUMIO - Bussare, io… bussare chi, signore?
C’è forse alcuno che ha recato offesa
a vostra signoria reverendissima?(28)

PETRUCCIO - Ma no, bussami qui, dico, gaglioffo,
e con forza!

GRUMIO - Bussarvi qui, signore?
Oh, mio signore, che son io, signore,
da dovervi bussare qui, signore?

PETRUCCIO - Idiota, bussami alla porta, dico,
e forte, o sarò io che busserò
su codesta tua zucca di furfante!

GRUMIO - Il mio padrone è in vena di baruffe,
mi pare: e io dovrei bussar per primo…
ma so bene chi avrà la peggio, dopo!

PETRUCCIO - Che! Rifiuti di farlo?
Allora, se non bussi, manigoldo,
ti scampanello io: voglio vedere
se sai la solfa e se la sai cantare!

(Lo afferra per un orecchio e lo scuote, fino a gettarlo a terra)

GRUMIO - Aiuto, gente! Il mio padrone è matto!

PETRUCCIO - E tu bussa, canaglia, se te l’ordino!

Entra ORTENSIO, uscendo dalla porta di casa

ORTENSIO - Ebbene, che succede?…
(Vedendo prima Grumio a terra)
Oh, chi vedo!… Il mio vecchio amico Grumio,
e il mio carissimo amico Petruccio!
E che ci fate a Padova, voi due?(29)

PETRUCCIO - Signor Ortensio, sei forse venuto
a spartire la lite? Posso dirti:
Con tutti le core bene trobatto”? (30)

ORTENSIO - Alla nostra casa bene venuto,
molto onorato signor mio Petruccio.”
Alzati, Grumio, àlzati, suvvia,
comporremo alla meglio questa lite.

GRUMIO - (A Ortensio, rialzandosi)
Signore, non m’importa di capire
quel ch’egli può cianciarvi in latinorum.(31)
Se non c’è qui motivo sacrosanto
per me d’abbandonare il suo servizio…
Pensate voi, signore: m’ha ordinato
che lo bussassi, lo battessi forte…
Ma vi sembra ben fatto, per un servo,
trattare in questo modo il suo padrone
che, per quanto ne so, tien sulle spalle
trentadue anni e rotti?… (32)
Perdio, avessi picchiato per primo,
ché Grumio non ne avrebbe ora la peggio!

PETRUCCIO - O stupido cialtrone!… Buon Ortensio,
avevo detto a questo manigoldo
di bussare per me alla tua porta,
ma non c’è stato verso, devi credermi,
di farglielo capire.

GRUMIO - Bussare alla sua porta?… O santo cielo!
Ma non m’avete detto
queste precise parole: “Compare,
bussami qui, e battimi ben bene?
E adesso mi venite a raccontare
che avete detto: “Bussami alla porta”?

PETRUCCIO - Va’, va’, gaglioffo, taci, che fai meglio!

ORTENSIO - Petruccio, abbi pazienza,
mi faccio io garante qui per Grumio.
Diavolo! Non sta bene
mettersi ad altercar sì duramente
col tuo vecchio fedele servitore,
il simpatico Grumio.
Dimmi, piuttosto, qual vento t’ha spinto
dall’antica Verona verso Padova?

PETRUCCIO - Lo stesso che sparpaglia per il mondo
molti giovani in cerca di fortuna
fuor della propria casa,
dove esperienza se ne fa assai poca.
Ma per dirtela in breve, caro Ortensio,
le cose stan così: mio padre è morto,
ed io mi sono messo alla ventura
per trovare di che accasarmi bene
e prosperare al meglio. Ho qui con me
sufficienti corone nella borsa
e beni al sole in patria,
ed ho deciso d’andarmene fuori
a visitare anch’io un po’ di mondo.

ORTENSIO - Quand’è così, Petruccio,
se m’è permesso dirtela brutale
e senza fronzoli, che ne diresti
s’io ti proponga di prendere in moglie
una donna bisbetica e sgraziata?
So che ben poco avrai da ringraziarmi
d’averti consigliato un tal partito;
ma posso garantirti ch’ella è ricca,
anzi, direi ch’è ricca a profusione…
Ma no, come non detto: troppo amico
mi sei perch’io ti auguri di sposare
una donna così…

PETRUCCIO - Caro Ortensio, fra amici come noi
non c’è bisogno di molte parole.
Se davvero conosci, come dici,
una ragazza tanto danarosa
da convenire ch’io la prenda in moglie
(giacché il denaro fu sempre per me
il bordone dell’amorosa danza), (33)
foss’anche brutta come una megera,(34)
vecchia e grinzosa come la Sibilla,(35)
linguacciuta, pettegola e bisbetica
come Santippe, la moglie di Socrate,
o peggio, beh, non ci sarebbe nulla
che potesse rimuovere d’un filo
in me l’affetto per codesta donna,
foss’ella più furiosa e turbolenta
dell’Adriatico quand’è in burrasca:
io son venuto a Padova
proprio per accasarmi riccamente;
e se sarà, sarò felice a Padova.

GRUMIO - (A Ortensio)
Signore, il mio padrone, ecco, vedete,
v’ha detto chiaro e tondo il suo proposito:
procurategli soldi a sufficienza,
e sposatelo pure a una pupattola,
a una bambola con gli spilli addosso,
a una vecchia befana senza un dente,
magari afflitta da tanti malanni
quanti cinquantadue cavalli insieme.
Se gli viene coi soldi,
non c’è nulla che non gli possa andare.

ORTENSIO - Quand’è così, Petruccio, sta’ a sentire:
voglio allora tornar più seriamente
su quanto detto poco fa per gioco:
io posso veramente darti mano,
Petruccio, a farti prendere una moglie
ricca abbastanza, e giovane e piacente,
ed educata alla miglior maniera
che si conviene ad una gentildonna.
Sua sola pecca, ma ne vale mille,
è d’essere di modi intollerabile,
linguacciuta, bisbetica e caparbia,
e tutto ciò talmente oltre misura,
ch’io stesso, se i miei mezzi finanziari
fossero assai peggiori che non sono,
non m’indurrei e prenderla per moglie
nemmeno per una miniera d’oro.

PETRUCCIO - Ortensio, basta, non mi serve altro.
Tu non conosci la forza dell’oro.
Dimmi solo come si chiama il padre,
ch’io la vado senz’altro ad abbordare,
urlasse e strepitasse più del tuono
quando squarcia le nuvole d’autunno.

ORTENSIO - Il padre suo è tal Battista Mìnola,
un gentiluomo affabile e cortese;
lei, sua figlia, si chiama Caterina,
ed è ben conosciuta in tutta Padova
per la sua lingua, sempre senza freno.

PETRUCCIO - Il padre lo conosco, ma lei no;
e il padre so che conosceva bene
il povero mio padre.
Ebbene, Ortensio, non chiuderò occhio
finché non avrò visto questa donna.
Per cui perdonami se mi dimostro
con te scortese da piantarti in asso
al nostro primo incontro… Io vo da lei,
salvo che non desideri tu stesso
d’accompagnarmi…

GRUMIO - (A Ortensio)
Vi prego, signore,
per carità di Dio, assecondatelo,
finché sta in quest’umore. V’assicuro,
s’ella lo conoscesse come me,
imparerebbe che col suo urlare
e menare la lingua, come dite,
avrebbe su di lui ben poca presa:
potrebbe dargli del gran farabutto
o qualcos’altro quante volte vuole,
senza fargli nemmeno batter ciglio;
ma se dovesse cominciare lui
a sfoderare poi la sua retorica,
e lei pensasse di tenergli testa
anche per poco, vi dico, signore,
ch’egli le butterebbe sulla faccia
l’una o l’altra figura,
e la sfigurerebbe in modo tale,
da non lasciarle altri occhi per vedere
più di quello che può vedere un gatto. (36)
Voi non lo conoscete, signor mio.

ORTENSIO - Aspettami, Petruccio, t’accompagno:
perché nella custodia di Battista
c’è anche il mio tesoro. Tiene in serbo
il gioiello della mia vita, Bianca,
la sua più giovane e leggiadra figlia
che ha stabilito di tener lontana
da me come dagli altri pretendenti
miei rivali, nella supposizione
che sia impossibile che Caterina
possa trovare mai a sistemarsi
a causa dei difetti che t’ho detto;
ed ha deciso quindi che nessuno
debba poter avere accesso a Bianca
fin quando l’altra figlia, la pestifera,
non si sia maritata.

GRUMIO - “La pestifera…”:
per una damigella da marito
un bel titolo: peggio non ce n’è.

ORTENSIO - Ora però debbo chiedere io
all’amico Petruccio un gran favore:
quello di presentarmi, travestito
in sobria veste, al ser Battista,
come un esimio maestro di musica,
per dar lezioni a Bianca;
e consentirmi, grazie ad un tal trucco,
d’aver modo di fare la mia corte
alla ragazza e con lei intrattenermi
da solo a solo senza dar nell’occhio.

GRUMIO - (A parte)
Se non è questa una furfanteria…
Ma guarda un po’ se non le studian tutte,
per farla in barba ai vecchi, questi giovani!

Entrano GREMIO con LUCENZIO nelle vesti di Cambio.
Gremio ha in mano un foglio.
Padrone, attento a voi. Chi sono questi?

ORTENSIO - Silenzio, Grumio, quello è il mio rivale.
Petruccio, stiamoci un poco da parte.

GRUMIO - Bello stecco, per uno spasimante!

(I tre si fanno da parte, mentre Gremio e Lucenzio vengono avanti)
GREMIO - Bene, benissimo, ho letto la lista.
Fate bene attenzione, signore,
voglio che siano bene rilegati
- tutti libri d’amore, mi capite,
costi quello che costi - ed oltre a questi
badate di non farle altre letture.
Per mia parte, al di sopra ed al di là
di quanto vi darà il signor Battista,
vi aggiungerò dell’altro, e largamente.
Riprendetevi pure questa nota
e fatemeli aver ben profumati,
perché colei cui sono destinati
è più soave del profumo stesso.
Che cosa dunque contate di leggerle?

LUCENZIO - Qualsiasi cosa mi verrà di leggerle
perorerò con lei la vostra causa
siccome quella del mio protettore,
potete star sicuro, e con tal forza,
come foste voi stesso al posto mio,
e con parole forse più suadenti
di quelle che potreste usarle voi,
ammenoché non foste, come me,
voi stesso uomo di lettere, signore.
GREMIO - Eh, che gran bella cosa l’istruzione!

GRUMIO - (A parte)
Oh, che somaro, questo beccaccione!
.
PETRUCCIO - (c.s.)
Zitto, gaglioffo.

ORTENSIO - (c.s.)
Grumio, chiudi il becco!
(Facendosi avanti)
Salute, signor Gremio.

GREMIO - Bene incontrato a voi, signor Ortensio.
Immaginate dove son diretto?
Esattamente da Battista Minola:
come sapete,(37) gli avevo promesso
di cercargli con cura un precettore
per la sua bella Bianca,
e m’è accaduto, per buona fortuna,
di conoscere questo giovanotto
che per dottrina e star della persona
è proprio quello che le si conviene,
assai bene versato in poesia
e in altre discipline,
tutte eccellenti, posso garantirlo.

ORTENSIO - Avete fatto bene. Per mia parte,
m’è occorso d’incontrare un gentiluomo
che m’ha promesso di farmi conoscere
un musicista molto raffinato
per dar lezioni al nostro amato bene.
Così non sarò anch’io venuto meno
al mio impegno per la bella Bianca,
che m’è sì cara.

GREMIO - Ed è sì cara a me,
e questo lo dimostreranno i fatti.

GRUMIO - (A parte)
E questo lo dimostrerà, sì, la sua borsa.

ORTENSIO - Signor Gremio, non è certo il momento
che noi si vada proclamando al vento
il nostro amore. Statemi a sentire,
e se avete parlato onestamente,
io vi farò partecipe a mia volta
di una notizia che può riuscire
egualmente preziosa per entrambi.
C’è qui questo signore,
in cui mi sono imbattuto per caso,
e che sarebbe, a certe condizioni
da parte nostra di suo gradimento,
disposto ad intraprendere senz’altro
la corte alla bizzosa Caterina;
sì, e perfino a sposarla,
se mai gli convenisse la sua dote.

GREMIO - Detto e fatto: per me, sono d’accordo,
Ortensio. Ma l’avete messo a parte
di tutti i suoi difetti?

PETRUCCIO - Li so già:
irsuta, litigiosa, insopportabile.
S’è tutto qui, signori, nessun danno.

GREMIO - No, davvero? Dite sul serio, amico?
Di che paese siete?

PETRUCCIO - Di Verona,
signore; sono nato là, e son figlio
del vecchio Antonio. Il mio povero padre
è morto e son rimasti a me i suoi beni,
e spero di vedere innanzi a me
giorni felici ancor per lungo tempo.

GRUMIO - Oh, signore, con una moglie simile
sarebbe strano che poteste vivere
una vita così. Ma se davvero
ritenete di avere tanto fegato,
buttatevici pure, santo Dio!,
e potrete contare su di me,
che vi darò volentieri una mano.
Ma veramente vorreste sposarvi
con quella specie di gatta selvatica?

PETRUCCIO - Sì, se vivrò.

GRUMIO - (A parte)
Se la conquisterà?…
Eccome, o io l’impicco, quella là!(38)

PETRUCCIO - Perché sarei venuto allora qui,
se non per questo scopo?
Credete che mi possa intimidire
qualche strillaccio? Non ho mai sentito
ruggir leoni? Mai infuriare il mare
gonfio dai venti, e grugnire schiumoso
come un cinghiale in rabbia?
O rimbombare il campo di battaglia
del fragor di pesanti artiglierie,
o rintronare delle sue il cielo?
O mai udito il fragor degli allarmi,
il nitrir dei cavalli, e lo squillare
dei trombettieri in battaglia campale?(39)
E dovrei ora farmi impaurire
dallo sberciar di una lingua di femmina
che non è pari manco alla metà
dello schiocco d’una castagna al fuoco?
Poh, poh, son spauracchi da ragazzi!

GRUMIO - E lui non ha paura di nessuno.

GREMIO - Ortensio, allora, statemi a sentire.
Sembra proprio che questo gentiluomo
sia capitato qui al punto giusto
per il suo tornaconto e per il nostro.

ORTENSIO - Gli ho già promesso il nostro contributo
alle spese del suo corteggiamento,
quali che siano.

GREMIO - E lo faremo, certo,
sempre ch’egli riesca a conquistarla.

GRUMIO - (A parte)
Ah, s’è per questo, foss’io così certo
d’aver oggi per me un buon pranzetto!

Entrano TRANIO, finemente travestito da Lucenzio, e BIONDELLO

TRANIO - Salute a voi, signori!
Posso osare di chiedervi, di grazia,
d’indicarmi qual è la via più breve
per la casa di ser Battista Mìnola?

BIONDELLO - Quel gentiluomo che ha due belle figlie…
Non è lui che intendete?

TRANIO - Sì, lui, Biondello.

GREMIO - Un momento, signore:
non intendete, per caso anche lei…

TRANIO - E perché no, signore, lui e lei.
A voi che importa?

PETRUCCIO - Non la “lei”, comunque
che strilla sempre, per favore, eh?


TRANIO - Gli strilloni non sono di mio gusto.
Biondello, andiamo.

LUCENZIO - (A parte)
Bell’esordio, Tranio!

ORTENSIO - (A Tranio)
Signore, vorrei dirvi una parola,
prima che andiate: siete un pretendente
della fanciulla di cui parlavate?

TRANIO - Ci sarebbe qualcosa di cattivo,
se lo fossi, signore?

GREMIO - No, signore, se voi sloggiate il campo
senza di altro.

TRANIO - E perché mai, signore?
Non sono libere le vie per me
come per voi?

GREMIO - Le vie, non la ragazza.

TRANIO - E per quale ragione, se m’è lecito?

GREMIO - Per questa, se vi piace di conoscerla:
che la ragazza è l’amorosa scelta
del signor Gremio.

ORTENSIO - E del signor Ortensio.

TRANIO - Adagio, miei signori.
Da gentiluomini quali voi siete,
usatemi il riguardo d’ascoltarmi
un momento. Battista è un gentiluomo
cui mio padre non è del tutto ignoto,
e se la figlia fosse anche più bella
di quello che è, potrebbe avere intorno
anche più pretendenti, e me tra quelli.
La bella figlia di Leda,(40) si dice,
ne aveva mille; uno più di lei
può averne anche la vezzosa Bianca.
E l’avrà, e sarà questo Lucenzio
che vi parla, venisse pure Paride
a pretendere d’esser solo lui.

GREMIO - E che! Vuol forse questo gentiluomo
venire a chiuderci la bocca a tutti?

LUCENZIO - Dategli briglia: tanto io so, signore,
che si dimostrerà presto un ronzino.

PETRUCCIO - Ortensio, insomma, a che tante parole?

ORTENSIO - (A Tranio)
Signore, posso prendermi l’ardire
di chiedervi se mai l’abbiate vista,
la figlia di Battista?

TRANIO - Mai, signore.
So tuttavia che di figlie ne ha due,
una famosa per la sua linguaccia,
l’altra per il soave suo pudore.

PETRUCCIO - La maggiore potete non contarla
caro signore, ché ella è per me.

GREMIO - Sì, sì, lasciatela, questa fatica,
al grande Ercole, e gli sia più dura
di tutte e dodici quelle affrontate
dal vero Alcide.(41)

PETRUCCIO - Signore, vi spiego,
statemi attento: la figlia minore,
quella per cui vi punge desiderio,
è tenuta dal padre segregata
dall’accesso di tutti i pretendenti;
egli non vuol prometterla a nessuno
finché non sia sposata la più grande.
Quindi soltanto allora la ragazza
si renderà accessibile, non prima.

TRANIO - Se così stan le cose, signor mio,
voi siete l’uomo-chiave qui per tutti,
me compreso; se romperete il ghiaccio
e porterete a buon fine l’impresa
d’impalmar la maggiore, Caterina,
e liberare per noi la minore,
chi avrà di noi la felice ventura
di averla, non sarà così insensibile
da non mostrarvi la sua gratitudine.

ORTENSIO - La dite bene, amico, in fede mia;
e soprattutto la pensate bene;
e poiché dite d’essere anche voi
un pretendente, un po’ di gratitudine
dovrete avere, come abbiamo noi,
nei riguardi di questo galantuomo
al quale tutti restiamo obbligati.

TRANIO - Certo che non vorrò tirarmi indietro.
E a conferma di ciò,
vi piaccia di trascorrere con me
il pomeriggio, a ber qualche bicchiere
alla salute della nostra amata.
Facciamo come fanno gli avvocati
che davanti alla corte di giustizia
si battono con grande accanimento
ma bisbocciano insieme come amici.

GRUMIO e BIONDELLO - Eccellente proposta. Andiamo, gente!

ORTENSIO - Ottima idea davvero, e così sia!
Petruccio, sarò il vostro ben venuto.(42)

(Escono)
ATTO SECONDO


SCENA I - Padova, in casa di Battista.
Entrano CATERINA e BIANCA, questa con le mani legate dietro la schiena.
BIANCA - Sorella mia, fai torto a me e a te
a trattarmi così, come una serva,
anzi una schiava. Questo mi ripugna.
In quanto a questi fronzoli,
liberami le mani, e da me stessa
me li tolgo, sì, tutto quel che ho indosso
di vestiti, fino alla sottoveste,
o tutto quello che tu vuoi ch’io faccia:
so bene quali sono i miei doveri
verso quelli che sono i miei maggiori.

CATERINA - Io t’ordino di dichiararmi qui
qual è, di tutti i tuoi corteggiatori,
quello che più ti piace.
E bada di non fingere con me.

BIANCA - Sorella, credimi, fra tutti gli uomini
non ho mai visto finora la faccia
che mi possa piacere più d’ogni altra.

CATERINA - Bugiardella, tu menti! Non è Ortensio?

BIANCA - Se è lui che t’interessa,
sorella, giuro che perorerò io stessa
perché tu l’abbia.

CATERINA - O forse è la ricchezza
cui tu più aspiri, e vuoi sposare Gremio
per poterti pagar la bella vita?

BIANCA - È per lui che tu sei così gelosa?
No, allora stai scherzando, e ben m’accorgo
che finora hai scherzato tu con me.
Ma ti prego, Catina,
sorella mia, dislegami le mani.

CATERINA - Se quello era per te tutto uno scherzo,
allora tutto il resto era così!

(La percuote)

Entra BATTISTA
BATTISTA - (A Caterina)
Beh, che succede qui, madamigella?
Da che nasce codesta oltracotanza?
Bianca, tu va’ di là!…
Povera figlia! Guarda come piange!
(Le slega le mani)
Va’, va’, riprendi pure il tuo ricamo,
non stare qui a competere con lei.
E tu vergògnati, brutto demonio!
A maltrattare così tua sorella
che non t’ha fatto mai nulla di male!
Quando mai t’ha ella contrariata,
sia pure con una parola storta?

CATERINA - Si fa gioco di me col suo silenzio
e voglio vendicarmi su di lei.
(S’avventa dietro a Bianca che sta uscendo, ma
Battista la trattiene)

BATTISTA - Come! Davanti a me?… Bianca, va’ dentro.

(Esce Bianca)

CATERINA - Già, voi non mi sapete sopportare…
Vedo bene che il vostro tesoruccio
è lei. È lei che deve aver marito.
Io devo sol ballare a piedi scalzi
il dì delle sue nozze(43)
e accompagnare le scimmie all’inferno(44)
in grazia al vostro debole per lei.
Non ditemi più niente,
andrò a sedermi in un cantuccio e a piangere,
fino al momento della mia rivincita.

BATTISTA - Ditemi un po’ se ci fu uomo al mondo
più tribolato di me… Ma chi viene?

Entrano: GREMIO, LUCENZIO (nelle vesti di Cambio, il maestro), PETRUCCIO, ORTENSIO (nelle vesti di Licio, il musicista), TRANIO (travestito da Lucenzio), e BIONDELLO che reca un liuto e alcuni libri.

GREMIO - Buongiorno a voi, cittadino Battista.

BATTISTA - E a voi salute, cittadino Gremio,
ed a voialtri tutti, gentiluomini.

PETRUCCIO - Così a voi, buon signore.
Di grazia, voi avete una figliola
di nome Caterina,
bella e virtuosa, vero?

BATTISTA - Ho una figliola,
signore, sì, di nome Caterina.

GREMIO - Voi siete troppo brusco,
venite al punto, ma gradatamente.

PETRUCCIO - E voi mi fate torto, signor Gremio,
lasciatemi sbrigarmela da me!
(A Battista)
Io sono un gentiluomo di Verona,
signor Battista, e avendo udito là
di vostra figlia, della sua bellezza,
e intelligenza, ed affabilità,
della sua pudibonda verecondia,
e dell’altre mirabili sue doti
oltre alla sua mitezza di carattere,
ardisco presentarmi in casa vostra,
forse un po’ troppo presuntuosamente,(45)
per fare dei miei occhi il testimone
di ciò che di lei tante volte ho udito;
e quale titolo d’introduzione
alla vostra benevola accoglienza
vi presento un mio uomo di fiducia
(Indica Ortensio/Licio)
assai bene versato nella musica
ed altrettanto nelle matematiche,
che potrebbe recarle un buon aiuto
nello studio di queste discipline
delle quali, del resto, a quanto so,
Caterina è tutt’altro che digiuna.
Vogliate darmi il vostro gradimento,
per lui, se non volete farmi torto.
Si chiama Licio, è nativo di Mantova.

BATTISTA - Oh, siate il benvenuto, signor mio,
ed anche il signor Licio, in grazia vostra!
Ma in riguardo a mia figlia Caterina,
io so - e davvero molto me ne duole -
ch’ella non potrà fare al caso vostro.

PETRUCCIO - Capisco: non volete separarvene;
o forse vi son io poco simpatico?

BATTISTA - Ahimè, non fraintendetemi, signore;
dico le cose come so che sono.
Di dove siete? Come vi chiamate?

PETRUCCIO - Il mio nome è Petruccio Bentivoglio,
e son figlio di Antonio, da Verona,
un gentiluomo noto in tutta Italia.

BATTISTA - E difatti l’ho conosciuto anch’io,
e siate il benvenuto in grazia sua.

GREMIO - Con rispetto di quel che avete a dire,
Petruccio, consentite che anche a noi,
poveri postulanti, sia permesso
di dire una parola a Ser Battista.
Fateci un po’ di posto, voglio dire:
siete speciale a farvi avanti a tutti!

PETRUCCIO - Oh, signor Gremio, vi domando scusa,
vorrei venire al sodo.

GREMIO - Non ne dubito; ma ad agir così,
penso che finirete a maledire
il vostro modo di chieder la mano.(46)
(A Battista)
Vicino, questo è un dono
assai gradito a voi, ne son sicuro;(47)
per usarvi un’eguale gentilezza,
anch’io, che sono stato più d’ogni altro
da voi trattato compiacentemente,
ho pensato di prendermi licenza
di presentarvi questo dotto giovane.
(Indica Lucenzio/Cambio)
che ha studiato per lungo tempo a Reims,
sa di greco e latino e d’altre lingue
quanto di musica e di matematica
sa l’altro. Cambio è il nome.
Accettate, vi prego, i suoi servigi.

BATTISTA - Mille ringraziamenti, signor Gremio.
E benvenuto a voi, gentile Cambio.
(A Tranio/Lucenzio)
Ma voi avete l’aria, mio signore,
d’andare intorno come uno straniero.
Posso farmi sì ardito
da chiedervi che v’ha condotto qui?

TRANIO - L’ardimento, signore, perdonate,
è solo e tutto mio, ché, forestiero
nella vostra città, mi fo sì ardito
da aspirare alla mano
della bella e virtuosa vostra Bianca.
Né m’è ignota la vostra decisione
di voler accasar, prima di lei,
la sorella maggiore Caterina.
Null’altro privilegio io vi chiedo
che questo: che una volta conosciuta
la mia casata e la mia discendenza,
voi mi accettiate fra i suoi pretendenti,
sì che al pari di loro io possa avere
pieno e libero accesso alla ragazza
e gradimento in seno alla famiglia.
Per l’istruzione delle vostre figlie,
vi lascio questo semplice strumento
(Gli offre il liuto prendendolo dalle mani di Biondello)
e questo piccolo pacco di libri
(Mostra i libri in mano a Biondello)
di greco e di latino; il loro pregio
sarà di riuscire a voi graditi.

BATTISTA - Vi chiamate Lucenzio, a quanto ho udito.
Di dove siete?

TRANIO - Di Pisa, signore,
son figlio di Vincenzo.

BATTISTA - Ah, lo conosco,
è uno dei notabili di Pisa.
Lo conosco di fama, molto bene.
Voi siete molto benvenuto, amico.
(A Ortensio/ Licio)
Voi, prendete il liuto.
(A Lucenzio/Cambio)
E voi, prendete quel pacco di libri.
Voglio che andiate subito a incontrare
le vostre due allieve.
(Chiamando)
Ehi, di casa!

Entra un SERVO
Tu, accompagna questi gentiluomini
dalle mie figlie, e fa’ capire a entrambe
che questi sono i loro istitutori,
e che usino loro ogni riguardo.

(Esce il servo con Ortensio e Lucenzio.
Biondello li segue con il liuto e i libri)
(A Petruccio)
Noi facciamo due passi qui in giardino,
e poi andremo a cena tutti insieme.
Siete tutti oltremodo benvenuti,
e vi prego di ritenervi tali.

PETRUCCIO - Però, signor Battista, ecco, vedete,
i miei affari mi richiedon fretta;
ed io non credo che mi sia possibile
venire qui tutti i giorni
a corteggiare la vostra figliola.
Voi ben conoscevate il padre mio,
e in lui potete pur vedere me
che son rimasto unico suo erede
delle terre e di tutti gli altri beni,
e posso dire di averli accresciuti
piuttosto che ridotti, in mano mia.
Perciò ditemi subito,
nel caso ch’io riesca a cattivarmi
il cuor di vostra figlia Caterina,
che dote avrò con lei, se me la sposo.

BATTISTA - Metà delle mie terre, alla mia morte,
e ventimila corone in contanti.

PETRUCCIO - Ed io, per questa dote, le assicuro,
se mai dovesse rimanere vedova
sì, dico, in caso che mi sopravviva,
il possesso di tutte le mie terre
e i proventi di tutte le mie rendite.
Perciò possiamo stendere il contratto,
così che quanto testé convenuto
sia osservato da entrambe le parti.

BATTISTA - Sì, quando tuttavia si sia accertata
la cosa più importante,
vale a dire l’amore della giovane:
Da lì dipende tutto.

PETRUCCIO - Oh, questo è il meno.
Lasciate che vi dica, signor suocero,
che io sono non meno perentorio
di quanto sia superba vostra figlia.
E laddove due fuochi divampanti
si scontrano, consumano l’oggetto
che alimenta la rispettiva furia.
E se è vero che anche un fuocherello
diventa grosso con un po’ di vento,
è pur vero che le potenti raffiche
spengono fuoco e tutto.
Tal sarò io con lei; e dovrà cedere,
perché son di carattere assai brusco,
e in amore non sono un ragazzino.

BATTISTA - Corteggiatela come più vi piace.
V’auguro di riuscire nell’impresa.
Ma tenetevi bene corazzato
per ricevere qualche parolaccia.

PETRUCCIO - Riguardo a questo, sono a tutta prova
come lo son coi venti le montagne
che non si lasciano giammai scrollare
per quanto quelli possano soffiare.

Entra ORTENSIO con un fazzoletto legato e insanguinato intorno alla testa.
BATTISTA - Oh, oh! Che vi è successo, amico mio?
Perché avete la faccia così pallida?

ORTENSIO - Per paura, signore, v’assicuro.

BATTISTA - Che mi dite, riuscirà mia figlia
ad essere una buona musicista?

ORTENSIO - Penso riesca prima,
ad essere, signore, un buon soldato.
Il ferro, forse, riesce a resisterle,
ma i liuti, no.

BATTISTA - Perché lo dite?
Non siete riuscito ad introdurla
nel liuto?

ORTENSIO - No, no, è stata lei
a introdurre il liuto in testa a me.
Le avevo appena cominciato a dire
che non toccava giustamente i tasti,
e le stavo abbassando un po’ la mano
per insegnarle la diteggiatura,
che quella all’improvviso,
come colta da furia diabolica,
mi grida: “Tasti!… Quali tasti… questi?
Ecco quel che ci faccio io, coi tasti!”
E lì m’ha dato lo strumento in testa,
sì che la zucca mia s’è fatta strada
dentro di esso, tutto attraversandolo,
e son rimasto lì tutto stordito
la mia testa affacciata a quel liuto
come alla gogna… e lei che là, imperterrita,
mi seguitava a dire in faccia, urlando,
che sono un musicista da strapazzo,
un cane di strimpellatore ed altro,
che pareva ci avesse fatto apposta
uno studio d’epiteti offensivi
per buttarmeli addosso tutti insieme.

PETRUCCIO - Ohilà, ma questa è una ragazza in gamba,
per tutto il mondo! Dopo udito questo,
mi piace dieci volte più di prima!
Ah, che non vedo l’ora di conoscerla,
e farmi quattro chiacchiere con lei!

BATTISTA - (A Ortensio)
Beh, venite con me, non scoraggiatevi.
Continuate la vostra lezione
con l’altra mia figliola, la più giovane,
che mi sembra più incline ad imparare
e più sensibile alle cose belle.
Signor Petruccio, venite con noi,
o preferite che vi mandi qui
mia figlia Caterina?

PETRUCCIO - Sì, vi prego,
mandatela voi qui. Resto ad attenderla.

(Escono Battista, Gremio, Tranio e Ortensio)

E, come lei arriva,
la voglio corteggiare a modo mio;
se poco poco sbraita,
le dico con il massimo sussiego
che canta dolce come un usignolo;
se fa la faccia arcigna,
le dico che ha la faccia d’una rosa
lavata dalla guazza mattutina;
se invece mi fa il muso e resta là
senza parola, mi metto a elogiare
la sua duttilità nel conversare,
e a dirle che fa prova
d’una eloquenza viva e penetrante;
se m’ordina con tono perentorio
di far bagaglio e togliermi di mezzo,
le dico “grazie” con un bel sorriso,
come se invece m’avesse pregato
di restare suo ospite gradito;
se infine alla richiesta di sposarmi
m’oppone un bel rifiuto, non faccio altro
che pregarla di fissar lei la data
delle pubblicazioni per le nozze
e quella della lor celebrazione.
Ma eccola… Petruccio, adesso a te!

Entra CATERINA

Buongiorno, Kate… È questo il vostro nome,
come ho sentito…

CATERINA - E avete ben sentito,
anche se siete un po’ duro d’orecchio,
mi pare, perché chi parla di me
mi chiama Caterina.

PETRUCCIO - Non mentite:
perché qui tutti vi chiamano Kate,
e talvolta “Katina”,
e talvolta “Katina la stizzosa”.
Ma per me siete Kate, la mia Kate,
la Kate più graziosa e più leggiadra
di tutta intera la cristianità,
la Kate di Kate-Hall, (48)
la mia Kate di tutte le dolcezze,
perché Kate è per me ogni dolcezza,
perciò accettate ch’io vi chiami Kate,
la mia consolazione. Io son qui spinto,
avendo udito celebrar dovunque
la tua mitezza, la tua mansuetudine,
le molte tue virtù e le tue grazie
(anche se molto inadeguatamente
per quelle che possiedi in realtà),
io sono qui per parlarti d’amore
e chiederti di diventar mia moglie.

CATERINA - Spinto… Vi siete spinto proprio a tempo!
Chi v’ha spinto a venire fino qui
si dia la pena di mandarvi indietro.
M’è bastato vedervi
per scoprire il bel mobile che siete.

PETRUCCIO - Un mobile! Che mobile?

CATERINA - Un trespolo.

PETRUCCIO - Brava, l’hai detta giusta!
Vieni a sederti allora su di me.

CATERINA - Gli asini son fatti per portare,
e voi ne siete uno.

PETRUCCIO - Son le donne,
invece, che son fatte per “portare”,(49)
e tu sei una.

CATERINA - Non come voi bolsa,
però, se è questo che volete intendere.

PETRUCCIO - Ahimè, cara, non sarò certo io
a osar di caricarti d’alcun peso,
sì giovane e leggera come sei…

CATERINA - Troppo leggera, sì,
perché uno zoticone come voi
possa afferrarmi, se pur quanto a peso
ho quello che dovrebbe esser mio.

PETRUCCIO - Dovrebb’essere?… Sccc!

CATERINA - Ditelo pure,
come quello d’un falco.

PETRUCCIO - Eh, colombella dall’aluccia lenta,
ci vorrà dunque un falco per ghermirti?

CATERINA - Sì, come una colomba, s’io son tale,
ghermisce un falco.(50)

PETRUCCIO - Evvia, evvia, vespetta,
non essere cattiva.

CATERINA - S’io son vespa,
meglio che stiate attento al pungiglione!

PETRUCCIO - Quello io ve lo strappo, e bell’e fatto.

CATERINA - Sì, se si sa dov’è,
ma uno sciocco è incapace di trovarlo.

PETRUCCIO - Chi non sa dove tiene il pungiglione
una vespa? Lo tiene nella coda.

CATERINA - No, nella lingua.

PETRUCCIO - La lingua di chi?

CATERINA - La vostra, se vi dilungate ancora
a dir sciocchezze.(51) E con ciò vi saluto.

(Fa per andarsene)

PETRUCCIO - Che! Mi lasci così?
Con la mia lingua dentro la tua coda?(52)
No, buona Kate, ti prego, torna indietro.
Io sono un gentiluomo.

CATERINA - Ah, sì? Proviamolo!

(Gli dà uno schiaffo)

PETRUCCIO - Se ci riprovi, giuro, ti sculaccio!

CATERINA - Ah sì? Che gentiluomo siete, allora?
Se mi picchiate, addio vostro blasone;
e se cessate d’esser gentiluomo,
niente più armi sopra il vostro stemma.

PETRUCCIO - Sei esperta d’araldica, Katina?
Oh, allora iscrivimi nei tuoi registri!

CATERINA - Che c’è sul vostro stemma gentilizio,
una cresta di gallo,
come quella che portano i giullari?(53)

PETRUCCIO - Un gallo senza cresta,
se sarà Kate la mia gallinella.

CATERINA - Un gallo che però non fa per me,
con quel vostro gracchiare da cappone.

PETRUCCIO - Katina, via, non esser così acida!

CATERINA - È il mio modo di fare naturale
quando ho davanti a me una mela marcia.

PETRUCCIO - Mele marce qui non ve n’è nessuna,
e dunque cerca di non esser acida.

CATERINA - C’è, c’è.

PETRUCCIO - Ebbene, fammela vedere.

CATERINA - Per farlo, avrei bisogno d’uno specchio.

PETRUCCIO - Ah capisco, vuoi dire la mia faccia.

CATERINA - Bravo! Siete davvero perspicace
per esser così giovane!

PETRUCCIO - San Giorgio!
Sono anche troppo giovane per te.

CATERINA - Eppure avete la faccia avvizzita.

PETRUCCIO - È a cagione della mie gravi cure.

CATERINA - Delle quali davvero io non mi curo.

(Fa di nuovo per andarsene)

PETRUCCIO - (Trattenendola)
Ma no, stammi a sentire, Kate, ascolta…
Insomma, via, non sfuggirmi così…
(L’afferra)

CATERINA - No, lasciatemi andare.
Se resto qui, vi faccio andare in bestia.

PETRUCCIO - Nient’affatto. Ti trovo anzi gentile
come non mi sarei mai aspettato.
M’avevan detto ch’eri muso lungo,
selvatica, stizzosa, antisociale.
M’accorgo invece ch’era tutto falso:
perché tu sei graziosa, cuorcontento,
oltremodo cortese, un poco timida
magari nel parlare, eppure dolce
come i fiori sbocciati a primavera.
Tu l’arcigna non la sai proprio fare:
guardare sbieco, morderti le labbra,
come fanno le donne inviperite;
né provi alcun piacere a contraddire;
sai anzi intrattenere con bel garbo
i tuoi corteggiatori.
Perché la gente deve dire, in giro,
che Kate è zoppa?… Calunnioso mondo!
Kate è dritta e slanciata,
svettante come il ramo d’un nocciòlo;
della nocciola ha il colorito, bruno,
e il sapore, più dolce della mandorla.
Di grazia, mostrami come cammini…
Tu non sei zoppa affatto.

CATERINA - Via, buffone!
Va’ a comandar così chi t’è al servizio!

PETRUCCIO - Fu mai Diana ornamento ad un boschetto
quanto Kate lo è per questa stanza
col suo incedere da principessa?(54)
Oh, sii tu Diana, e fa’ ch’ella sia Kate!
E che Kate sia casta,
e Diana incontinente alla lussuria!

CATERINA - Dove avete imparato
tutto questo piacevole sproloquio?

PETRUCCIO - Lo improvviso. Mi viene giù così
dallo spirito che mi die’ mia madre.

CATERINA - Una madre di spirito,
se no, il figlio, per sé, non lo sarebbe.

PETRUCCIO - Non ti sembro assennato?

CATERINA - Sì, ma cercate di tenervi caldo.(55)

PETRUCCIO - Per la Vergine, è quel che intendo fare,
ma nel tuo letto, dolce Caterina!
Perciò, a parte tutte queste chiacchiere,
ti dico chiaro e tondo che tuo padre
ha consentito a che tu sii mia moglie;
sulla dote ci siam messi d’accordo,
e, tu lo voglia o no, ti sposerò.
Io so d’essere, Kate, l’uomo giusto
che ci vuole per te;
e tu, ti giuro sopra questa luce
grazie alla quale io posso contemplare
la tua bellezza, non dovrai sposare
altri che me; perch’io son nato, Kate,
per addomesticarti, e trasformarti
dalla gatta selvatica che sei
in una Caterina mansuefatta
come ogni altra domestica gattina.(56)
Ecco tuo padre. Non dire di no.
Io debbo avere in moglie Caterina,
lo voglio e basta! Non ci sono santi.(57)

Rientra BATTISTA con GREMIO e TRANIO
BATTISTA - Dunque, signor Petruccio,
come va con mia figlia?

PETRUCCIO - Ottimamente!
Come poteva essere altrimenti?
Era impossibile che andasse male,
e ch’io non le riuscissi…

BATTISTA - Caterina,
figlia mia, perché fai quella faccia
così accigliata?

CATERINA - E mi chiamate figlia?
Bell’affetto di padre, quello vostro,
di volermi sposare a un mentecatto,
un ruffiano pazzoide, uno Zanni
che non sa altro che sacramentare,
e pensa di arrivare chi sa dove
a furia di sacramentarsi addosso!

PETRUCCIO - Caro suocero, i fatti sono questi:
qui tutti quanti, compreso voi stesso,
l’avete sempre giudicata male.
S’ella è scostante, è per suo proprio calcolo;
perché non è per nulla prepotente:
è remissiva come una colomba;
e nemmeno è focosa ed infiammabile,
ma calma, come l’aria mattutina.
Quanto a sopportazione,
si mostrerà una seconda Griselda(58)
e quanto a virginale verecondia,
una seconda Lucrezia Romana.(59)
In conclusione, così ben d’accordo
ci siam trovati, che abbiamo fissato
per domenica il giorno delle nozze.

CATERINA - Prima impiccato ti voglio vedere,
domenica!

GREMIO - Petruccio, avete udito?
Impiccato vi vuol vedere, ha detto.

TRANIO - Son questi i vostri successi con lei?
Allora buona notte al nostro piano!

PETRUCCIO - Abbiate un po’ di pazienza, signori!
Del resto, me la sono scelta io:
contenti noi, a voi che cosa importa?
Abbiamo stabilito fra noi due
ch’ella, in presenza d’altri,
seguiti a far la solita bisbetica.
Vi dico io, il bene che mi vuole
è cosa veramente da non credere.
O, dolcissima Kate!
Con che slancio mi si cingeva al collo,
e baci, e baci, e con tale passione,
e più volte giurando e rigiurando
d’amarmi, m’ha aggiogato all’amor suo.
Oh, voi siete novizi a certe cose!
Ma è stupendo vedere,
quando un uomo e una donna stanno soli,
come anche il più sprovveduto degli uomini
possa riuscire ad addomesticare
la più intrattabile delle bisbetiche.
Dammi la mano, Kate. Io vo a Venezia
ad acquistar le vesti per le nozze.
Voi, signor suocero, pensate al pranzo,
e a preparar gli inviti. Son sicuro
che la mia Kate sarà deliziosa.

BATTISTA - Non ho parole. Qua, le vostre destre.
Che Dio vi mandi ogni felicità,
Petruccio. Affare fatto.

GREMIO e TRANIO - Amèn da noi!
Faremo loro noi da testimoni.

PETRUCCIO - Suocero e sposa, e voi, signori, addio.
Io parto per Venezia. L’ora stringe,
e domenica fa presto a venire.
Avremo anelli, gioie, altri preziosi.
Ed ora, Caterina, dammi un bacio.
Noi due domenica saremo sposi.

(L’abbraccia e cerca di baciarla;
ella si divincola ed esce correndo)
BATTISTA - Signori, ho l’impressione, in verità,
d’esser ridotto al ruolo del mercante
che s’imbarca sconsideratamente
in un’operazione disperata.

TRANIO - Era quella però tal mercanzia,
che, a rimanere ferma nella stiva,
sarebbe fatalmente andata a male;
ora, se non andrà perduta in mare,
vi porterà certamente un guadagno.

BATTISTA - Oh, l’unico guadagno che m’aspetto
è un matrimonio senza turbolenze.

GREMIO - Non c’è dubbio, egli ha fatto la sua pesca
in acque chete. Ed ora, ser Battista,
veniamo all’altra figlia, la più giovane.
Questo è il giorno che abbiamo tanto atteso.
Io sono il vostro vicino più prossimo,
e sono stato il primo a corteggiarla.

TRANIO - Ed io son uno che ama vostra figlia
più che non possan dire le parole
e la mente pensare.

GREMIO - Giovincello,
non puoi saper amare come me.

TRANIO - Barbagrigia, l’amore tuo è gelo.

GREMIO - Ma il tuo frigge, pivello. Fatti indietro.
All’amore è l’età che dà sostanza.

TRANIO - Ma agli occhi delle donne,
solo la gioventù sa metter fiori.

BATTISTA - Calmatevi, signori. Vedrò io
di comporre tra voi questa contesa.
Saranno i fatti a stabilirne l’esito,
e quello di voi due
che potrà dimostrar di assicurare
alla mia Bianca la dote più ricca,
avrà la mano della mia figliola.

GREMIO - Ebbene, quella mia voi la sapete:
in primo luogo, la casa in città,
ben provvista di ricco vasellame,
bacili ed anfore d’oro e d’argento
per lavar le sue mani delicate;
tappezzerie di Tiro alle pareti,
scrigni d’avorio pieni di corone
e cassapanche in legno di cipresso,
dove ho stipato trapunte di Arras;
ricche vesti, tendaggi, baldacchini,
lenzuola e federe di lino scelto,
cuscini turchi trapunti di perle,
merletti di Venezia a frange d’oro,
utensili di peltro e rame: insomma
tutto per il governo della casa.
Poi la mia fattoria,
nelle cui stalle sono cento mucche
e circa dieci dozzine di buoi;
e tutto il resto in questa proporzione.
Senza aggiungere (devo pur ammetterlo)
ch’io sono ormai alquanto in là con gli anni,
e se morissi, poniamo, domani,
tutto questo rimane roba sua,
sempreché, mentr’io sia rimasto in vita,
ella sia stata sempre solo mia.

TANIO - Quel “solo” ci sta bene.
Ora sentite me, signor Battista:
io son l’unico figlio di mio padre
e l’unico suo erede.
Se potrò avere in moglie vostra figlia,
le intesto subito tre-quattro case
entro la cinta della ricca Pisa,
che valgono ciascuna, certamente,
quella che il signor Gremio tiene qui.
In più le porto duemila ducati
all’anno, rendita delle mie terre;
il tutto a titolo di sopraddote.
Toccato, eh, signor Gremio?

GREMIO - Ah, s’è così…
Certo… duemila ducati di rendita…
(A parte)
Tutte le mie sostanze non ci arrivano.
(Forte, a Battista)
E allora, in più di quello che ho già detto,
riceverà da me una ragusina(60)
presentemente all’ancora a Marsiglia.
La ragusina v’ha chiuso la bocca,
signor Lucenzio, eh?…

TRANIO - Ma, signor Gremio,
lo sanno tutti che di ragusine
mio padre ne possiede almeno tre
di buona stazza, oltre a due galeoni
e una dozzina di galee leggere.
Assegno a lei tutto questo naviglio,
e raddoppio qualsiasi vostra offerta.

GREMIO - Ho tutto offerto. Non mi resta nulla.
Più di quanto posseggo non può avere.
Se avrò la preferenza, ella, con me,
riceverà tutto quello ch’è mio.

TRANIO - Ebbene, la ragazza allora è mia,
stando a quello che voi le promettete.
(A Battista)
Il signor Gremio dunque è fuori causa.

BATTISTA - Sì, ser Lucenzio, devo riconoscerlo,
la vostra offerta è certo la migliore;
e non appena avrò da vostro padre
la sicurtà per lei, mia figlia è vostra.
Altrimenti, dovete perdonarmi,
se voglia il caso che le premoriste,
a chi andrebbe a finire la sua dote?

TRANIO - Ah, questo vostro è solo un bel cavillo,
perché mio padre è vecchio ed io son giovane.

GREMIO - E i giovani non possono morire,
come i vecchi?

BATTISTA - Signori, beh, ho deciso.
Questa domenica, come sapete,
andrà sposa mia figlia Caterina;
e la domenica che seguirà
(A Tranio)
sarà Bianca ad andare sposa a voi,
sempre che mi darete, nel frattempo,
la sicurtà del vostro genitore.
Se no, ella andrà sposa al signor Gremio.
E con ciò vi saluto e vi ringrazio.

GREMIO - Salute a voi, buon vicino Battista.

(Esce Battista)

Quanto a te, scapestrato giovinotto,
non ti temo. Sarebbe un bell’idiota
tuo padre a mettere nelle tue mani
tutto il suo patrimonio,
spogliandosene lui, vecchio com’è,
mettendo i piedi sotto alla tua tavola.(61)
Bubbole! Un Italiano vecchia volpe,
giovanotto, non è di questa stoffa!

(Esce)

TRANIO - Ti s’impesti quella tua faccia vizza,
malizioso vecchiacco!
Ma a spiazzarlo ci sono riuscito,
mettendoci un bel carico da undici!(62)
Quello che mi sta a cuore, in testa a tutto,
è ch’io possa giovare al mio padrone;
e non vedo perché, a questo punto,
colui che finge d’essere Lucenzio
non possa fingere di darsi un padre,
che, supponiamo, si chiami Vincenzo.
Anche se ciò può sembrare bislacco,
perché generalmente sono i padri
a generare i figli; in questo caso,
se il trucco mi dovesse riuscire,
sarebbe il figlio a generare il padre.

(Esce)
ATTO TERZO


SCENA I - Padova, in casa di Battista.
Entrano; ORTENSIO nelle vesti di Licio, maestro di musica, e BIANCA. Ortensio/Licio sta insegnando a Bianca come suonare il liuto e le tiene una mano sulla tastiera. Entra LUCENZIO, nelle vesti di Cambio, e vedendolo esclama:
LUCENZIO - Ehi, piano, violinista, mani a posto!
Vi prendete un po’ troppa confidenza!
Avete forse già dimenticato
l’accoglienza con cui la sua sorella,
Caterina, v’ha dato il benvenuto?

ORTENSIO - Ma questa, pedagogo attaccabrighe,
delle armonie celesti è la patrona.
Perciò lasciate a me la precedenza.
Dopo che avremo fatto con la musica
un’ora di lezione, voi potrete
altrettanto durare con la vostra.

LUCENZIO - O solenne somaro!
Ignorante a tal punto di letture,
da non sapere per quale ragione
fu inventata dagli uomini la musica.
Non fu forse per rinfrescar la mente
dagli studi e le cure giornaliere?
E dunque, sia permesso prima a me
di far lezione di filosofia,
e soltanto quand’io avrò finito
le servirete le vostre armonie.

ORTENSIO - Ehi, giovinotto, non ho affatto voglia
di sopportare queste tue bravate!

BIANCA - Signori, voi mi fate entrambi torto
se adesso vi mettete a disputare
su cosa che compete a me decidere.
Io non sono di quelle scolarette
che si devono sculacciare a scuola,
e non intendo sentirmi legata
a orari fissi e tempi stabiliti:
le stabilisco io le mie lezioni,
come mi torna e m’accomoda meglio.
Per tagliar corto con le vostre liti,
sediamoci ora qui. Voi, musicista,
prendete il vostro strumento, e suonatelo.
La sua lezione sarà terminata
prima che voi finiate d’accordarlo.

ORTENSIO - E se riesco ad accordarlo prima,
gli farete interromper la lezione?

LUCENZIO - Questo non sarà mai.
Badate ad accordare lo strumento.
(Ortensio si ritira. Bianca e Lucenzio si siedono)

BIANCA - Dove siamo rimasti l’altra volta?

LUCENZIO - Ecco, madamigella, a questo punto:
Hic ibat Simois, hic est Sigeia tellus,
“Hic steterat Priami regia celsa senis”.(63)

BIANCA - Fate la costruzione e traducete.

LUCENZIO - Hic ibat”: come v’ho detto io sono…
Simois”: Lucenzio Bentivoglio…
“Hic est”: di Pisa, figlio di Vincenzo…
“Sigeia tellus”: così travestito,
soltanto per avere il vostro amore…
Hic steterat”: l’altro Lucenzio, invece,
che viene a chiedere la vostra mano…
Priami”: è il mio valletto Tranio…
regia”: che porta indosso il mio vestito…
celsa senis”: al fine d’ingannare
il vecchio Pantalone(64) vostro padre.

ORTENSIO - Lo strumento è accordato, madamina.

BIANCA - Sentiamolo.
(Ortensio produce alcuni accordi)
Macché, stona il cantino.

LUCENZIO - Rimettetevi all’opera, messere,
e cercate di nuovo d’accordarlo.

(Ortensio s’allontana di nuovo)
BIANCA - Ch’io veda adesso come so tradurlo:
Hic ibat Simois”: non vi conosco…
Hic est Sigeia tellus”: non mi fido…
Hic steterat Priami”: stiamo attenti
a non farci sentir da quello là…
Regia”: non fatevi troppe illusioni…
Celsa senis”: però non disperate.
ORTENSIO - (Venendo di nuovo avanti)
Ecco, adesso è accordato.

LUCENZIO - Il basso no.

ORTENSIO - Sì, pure il basso è a posto.
Chi stona è quel gaglioffo che so io…
(A parte)
Però com’è focoso e intraprendente
il nostro bravo pedante! Scommetto
che il furfante corteggia l’amor mio…
Pedascule, ti terrò bene d’occhio!(65)
(S’allontana di nuovo)

BIANCA - (A Lucenzio)
Forse, col tempo, chissà, potrò credervi…
Per ora son piuttosto diffidente.

LUCENZIO - Non dovete…
(S’accorge che Ortensio sta ascoltando)
… No, no, ve l’assicuro:
Aiace era del ramo degli Eacidi,
anch’egli detto Eacide, dal nonno.(66)

BIANCA - Non oso contraddire il mio maestro,
con tutto che avrei tanto da discutere
su questo punto… Ma lasciamo andare.
(A Ortensio che si è avvicinato)
Ed ora, Licio, a voi, mio buon maestro.
Non abbiatela a male, ve ne prego,
se ho scherzato così con tutti e due.

ORTENSIO - (A Lucenzio)
Voi potete pur fare quattro passi,
e lasciare a me il campo per un poco:
non insegno la musica a tre voci.

LUCENZIO - Eh, formalista fino a questo punto?…
Va bene, aspetterò.
(A parte)
Ma senza perderti d’occhio un istante…
M’ingannerò, ma il nostro fine musico
si comincia a scaldar per la ragazza.

ORTENSIO - Prima di metter mano allo strumento
per insegnarvi la diteggiatura
secondo il mio sistema, madamina,
debbo iniziarvi ai primi rudimenti,
sì ch’io possa insegnarvi a solfeggiare
nel modo più spedito e dilettevole,
più approfondito, valido, sicuro
di qualsiasi altro metodo
adottato dagli altri miei colleghi.
Eccolo qui, stilato in bella forma.
(Le porge un foglio col pentagramma)

BIANCA - Ma la scala l’ho appresa ormai da tempo.

ORTENSIO - E tuttavia leggete quella mia.

BIANCA - (Legge)
“DO: sono il fondamento d’ogni accordo…
“RE: a dichiararvi l’amore di Ortensio…
“MI: accettatelo, Bianca, per marito…
“FA: perché lui sa amar con tutta l’anima…
“SOL-RE: due note, su una sola chiave;
“LA-MI: siate pietosa, se no muoio.”
E questa, voi, la chiamate una scala?
Non mi piace. Mi piacciono di più
i vecchi metodi di moda un tempo.
Non sono così frivola e volubile
da cambiare le regole più antiche
con delle strampalate innovazioni.

Entra un SERVO
SERVO - Vostro padre vi prega, padroncina,
che lasciate da parte i vostri libri
e che andiate di là a dare mano
a preparar la camera nuziale
della sorella vostra. Le sue nozze,
come sapete, saranno domani.

BIANCA - Cari maestri, vi saluto entrambi.
Debbo andare.

LUCENZIO - In tal caso, madamina,
non c’è ragione ch’io resti più qui.

(Esce)

ORTENSIO - Qualche ragione invece ce l’ho io
di stare a sorvegliar questo pedante
che mi par proprio innamorato cotto…
Però, Bianca mia cara,
se i tuoi pensieri son così volgari
da farti volger l’occhio vagabondo
al primo straccivendolo che passa,
per me, ti prenda pure chi ti vuole;
e se per caso mi dovessi accorgere
che sfarfalli da oriente ad occidente,
con te Ortensio chiude la partita,
e se ne cerca qualcun’altra altrove.

(Esce)
SCENA II - Padova, davanti alla casa di Battista.
Entrano BATTISTA, GREMIO, TRANIO (sempre travestito da Lucenzio), CATERINA, BIANCA, LUCENZIO (travestito da Cambio), e altri.

BATTISTA - (A Tranio)
Questo è il giorno fissato per le nozze
di Caterina mia figlia e Petruccio,
ma mio genero ancora non si vede…
Signor Lucenzio, che dirà la gente?
Il sacerdote pronto a celebrare
e lo sposo che ancora non arriva…
Che scorno! Che vergogna!… Che ne dite?

CATERINA - Scorno e vergogna sono solo miei.
Son io che son forzata a controcuore
a conceder la mano
ad uno scervellato zoticone,
sempre in vena di scherzi, stravagante,
che prima si dichiara in tutta fretta
e poi mi sposa quando gli fa comodo.
Io ve l’avevo detto ch’era matto;
che sotto la sua aria facilona
nascondeva l’amaro della beffa.
Quello, secondo me,
per farsi fama d’uomo spiritoso,
è capace di corteggiarne mille,
di stabilire il giorno della nozze,
preparare la festa, far gli inviti,
far affiggere le pubblicazioni,
senza avere la minima intenzione
di sposare colei cui s’è promesso.
Adesso tutti segneranno a dito
la povera infelice Caterina,
ammiccando e dicendosi tra loro:
“Eccola là, la moglie di quel matto,
sempre che quello si ricorderà
di venire a sposarsela a suo comodo!”

TRANIO - Abbiate ancora un poco di pazienza,
Caterina, e voi, signor Battista.
Giuro sulla mia vita che Petruccio
si porterà con voi da galantuomo,
qualunque cosa lo trattenga adesso
dal mantener l’impegno.
Io lo conosco: sembrerà un po’ brusco,
ma è persona oltremodo assennata,
benché d’umor gioviale, in fondo onesto.

CATERINA - Non l’avessi mai visto e conosciuto!

(Esce piangendo, seguita da Bianca e da tutti gli altri)
BATTISTA - Va’, figliola, non posso darti torto
se piangi, ché un’offesa come questa
farebbe spazientire pure un santo,
figuriamoci una come te,
bisbetica e impaziente come sei.

Entra BIONDELLO

BIONDELLO - (A Tranio)
Padrone mio, padrone, novità!
Ci sono novità, ma così vecchie
quali voi non le avete mai udite!

BATTISTA - Che! Vecchie novità… che vai dicendo?

BIONDELLO - Perché, forse non è una novità
l’annuncio dell’arrivo di Petruccio?

BATTISTA - È arrivato?

BIONDELLO - No, no, signore.

BATTISTA - E allora?

BIONDELLO - Sta arrivando.

BATTISTA - E quand’è che sarà qui?

BIONDELLO - Quando si troverà davanti a voi
che state lì, così, dove son io.

TRANIO - Allora le tue vecchie novità
dove stanno?

BIONDELLO - Perbacco, che Petruccio
sta arrivando con un cappello nuovo,
un giustacuore liso,
delle braghe tre volte rivoltate,
due stivali spaiati, uno con fibbie
l’altro con stringhe, serviti finora
da ripostiglio per candele usate;
con al fianco una spada arrugginita
e spuntata e con l’elsa mezza rotta
rintracciata frammezzo ai ferri vecchi
dell’antica armeria della città,
e due stringhe sprovviste di puntale;
in groppa a un ronzino spelacchiato,
sopra una vecchia sella tutta tarli
e un paio di speroni scompagnati:
una bestia per giunta incimurrata
e ricoperta d’ogni sorta d’ulcere,
infettata di galle di tumori,
zoppa per le giunture tumefatte,
tutte gialle striate d’itterizia,
e coperte da pustole incurabili,
divorata le viscere dai vermi,
la schiena curva che pare slogata,
il deretano tutte lussazioni,
gli anteriori che inciampano ogni tanto,
il morso difettoso d’una guida,
una testiera di pelle di capra
che si vede che a forza di tirarla
s’è dovuta spezzar più d’una volta,
e che si tiene su solo coi nodi;
un sottopancia tutto rattoppato,
sul dorso una groppiera di velluto
da donna con agli angoli due lettere
formate con le teste di bullette
e qua e là rammendate con lo spago.

BATTISTA - E insieme a lui chi viene?

BIONDELLO - Il suo lacchè
tutto bardato dalla testa ai piedi,
esattamente come il suo cavallo:
una calza di lana ad una gamba
e all’altra un calzerotto di pezzaccia,
tenute su a mo’ di giarrettiera
da un nastro rosso-blu; e un cappellaccio
vecchio, che porta al posto delle piume
ogni sorta di buffe cianfrusaglie:
un mostro, insomma, calzato e vestito,
non davvero un valletto da cristiani
o un lacchè di padrone rispettabile.

TRANIO - Forse una stravaganza del suo estro
l’ha spinto a presentarsi in tale arnese,
ché di solito veste assai dimesso.

BATTISTA - A me basta che arrivi;
in quale foggia, m’interessa poco.

BIONDELLO - Il fatto è che, signore, non arriva.

BATTISTA - Ma non hai detto che stava arrivando?

BIONDELLO - Chi, io? Che stava arrivando Petruccio?

BATTISTA - Sì, tu, che stava arrivando Petruccio!

BIONDELLO - No, signore, io ho detto il suo cavallo
che arrivava, con lui sopra la groppa.

BATTISTA - E che! Non è lo stesso?

BIONDELLO - (Recitando)
“No, per San Giacomo, uomo e cavallo,
“scommetto un penny, più d’uno fanno;
“questa è aritmetica, senza alcun fallo,
pur se una folla, essi non fanno”.
Entrano PETRUCCIO e GRUMIO vestiti al modo che ha descritto Biondello
PETRUCCIO - Beh, dove sono questi baldi giovani?
Chi è in casa?

BATTISTA - Voi siete il benvenuto.

PETRUCCIO - Venuto bene tuttavia non sono.

BATTISTA - Non zoppicate “tuttavia”, mi pare.

TRANIO - Magari non sì bene equipaggiato
nel vestire, com’io vorrei lo foste.

PETRUCCIO - Non ho potuto meglio, per la fretta.(67)
Ma dov’è Kate, la mia bella sposa?
E come sta mio suocero?
Signori, siete tutti un po’ accigliati,
mi pare. Questa bella compagnia
mi guarda come avesse avanti a sé
chi sa quale bizzarro monumento,
o una cometa, o qualche strano mostro.
Perché?

BATTISTA - Signore mio, sapete bene
che questo è il giorno delle vostre nozze.
Qui siamo stati in gran trepidazione
nel timore che non veniste più;
ora lo siamo tutti ancor di più
nel vedervi arrivare in questo arnese,
sì poco conveniente all’occasione.
Diamine, su, toglietevi quell’abito
indecoroso per il vostro rango;
esso è un pugno nell’occhio
della nostra solenne cerimonia.

TRANIO - E diteci anche qual grave ragione
v’ha fatto star lontano dalla sposa
per tanto tempo, e vi fa venir qui
così diverso da quello che siete.

PETRUCCIO - Sarebbe a me noioso a raccontarlo
ed a voi sgradevole a sentirlo.
Vi basti di sapere che son qui
per mantenere la parola data,
pur se costretto a trasgredirvi in parte.
Ma di questo mi spiegherò con voi
a maggior comodo, e son sicuro
che ne sarete tutti soddisfatti.
Ma dov’è la mia Kate?…
Troppo a lungo le son stato lontano.
La mattinata volge ormai al termine,
ed è già tardi per andare in chiesa.

TRANIO - Non fatevi vedere dalla sposa,
però, in così sconcio abbigliamento!
Vogliate andare su nella mia camera
e mettetevi addosso un mio vestito.(68)

PETRUCCIO - Nemmen per sogno. Voglio andar da lei
proprio così vestito.

BATTISTA - Non così, per sposarla, eh, speriamo!

PETRUCCIO - E perché no? Proprio così vestito
la porterò all’altare.
Lei si sposa me, non sposa i miei vestiti.
Perciò finiamola con le parole.
Mi fosse facile porre riparo
a ciò che lei consumerà di me
come m’è facile cambiare d’abito,
sarebbe una fortuna per entrambi,
a lei prima che a me.
Ma che sciocco son io a stare qui
a perder tempo in chiacchiere con voi,
quando dovrei andar dalla mia sposa
a darle il mio buongiorno,
e suggellare con un dolce bacio
questo suo nuovo nome. Permettete.

(Esce, Grumio lo segue)

TRANIO - Mah, dovrà avere pur le sue ragioni
per venire in quel pazzo abbigliamento.
Speriamo sia possibile
convincerlo a indossarne uno migliore
prima che vada in chiesa in quell’arnese.

BATTISTA - Gli voglio andare dietro,
a veder come volgono le cose.

(Esce, seguito da Battista, Gremio e Biondello )

TRANIO - (A Lucenzio)
Sarà il caso, però, padrone mio,
di pensare che all’amor suo per voi
s’aggiunga il beneplacito del padre.
E per condurre bene la bisogna,
io, come ho detto già a vossignoria,
debbo trovare una qualche persona
(chiunque sia: provvederemo noi
ad imboccarla bene al nostro fine)
da far passare agli occhi di Battista
per Vincenzo da Pisa, vostro padre,
e che si faccia a lui mallevadore
a Padova per somme anche maggiori
di quelle che ho promesso.
Così potrete avere la speranza
di sposare la deliziosa Bianca
con il consenso del suo genitore.

LUCENZIO - Non fosse che il maestro mio collega
la sorvegli da presso di continuo,
addirittura contandole i passi,
penso davvero che sarebbe il caso
di fare un matrimonio clandestino;
che, una volta che fosse consumato,
dicesse pur di no l’intero mondo,
mi terrei la mia donna, in barba a tutti.

TRANIO - E perché no? Bisognerà pensarci
con la dovuta calma e discrezione,
studiando bene quali circostanze
di tempo e luogo possan favorirci.
Potremo raggirare in questo modo
tutti quanti: il barbagrigia Gremio
l’occhio-vigile Minola, suo padre,
e quel musico scaltro e intraprendente,
l’innamorato Licio.
E tutto per amor del mio padrone.

Rientra GREMIO

Venite dalla chiesa, signor Gremio?

GREMIO - E non vi dico quanto volentieri!
Come non m’accadeva più da quando
da fanciulletto ritornavo a casa
dalla scuola(69).

TRANIO - E lo sposo con la sposa
stan tornando anche loro?

GREMIO - Quale sposo?
Ma quello è uno staffiere, uno scorbutico.
E la ragazza se ne accorgerà.

TRANIO - Più scontroso di lei? Non è possibile.

GREMIO - Un diavolo, vi dico, un satanasso.

TRANIO - No, la diavola è lei,
una versiera, con tutte le regole.

GREMIO - Ma lei, al suo confronto è un agnellino,
una colomba, ma che dico, un niente!(70)
Signor Lucenzio, statemi a sentire:
quando il prete gli ha fatto la domanda:
“Vuoi tu prendere in moglie Caterina?”,
subito lui: “Ma sì, Sangue di Cristo!”(71)
prorompe, ed incomincia a bestemmiare,
e così forte, che al prete, confuso,
è caduto il messale dalle mani,
e mentre si chinava a raccattarlo,
quella testa balzana dello sposo
gli ha rifilato un tale sganassone
da far che prete e libro e libro e prete
facessero un solenne capitombolo.
Al che fa lui, rivolto a tutti noi:
“E adesso, chi ne ha voglia lo raccatti!”

TRANIO - E quando il prete s’è rimesso in piedi,
che ha detto la ragazza?

GREMIO - Poveretta!
Tremava tutta, e lui batteva i piedi
e non cessava di sacramentare,
come se il prete volesse beffarlo.
Compiute quindi le formalità di rito,
ha chiesto che portassero del vino,
e s’è messo a strillare: “Alla salute!”
come chi fosse stato su un veliero
a brindar coi compagni della ciurma
dopo una traversata burrascosa;
ha quindi tracannato il moscatello
ed ha gettato in faccia al sagrestano
tutti pezzi di pane intinti al vino,
non avendo, a far ciò, altro motivo
che la barba di quel malcapitato,
così patita e da morto di fame,
da parer quasi che fosse essa stessa
a domandare a lui, mentre beveva,
quei pezzetti di pane. Fatto ciò,
aggancia il braccio al collo della sposa
e le stampa un bacione sulle labbra
con uno schiocco così fragoroso
che al separarsi delle loro bocche
ne rintronava tutta la navata.
Dopo aver assistito a tutto questo,
io, pel disgusto, son venuto via,
e dietro a me, son certo, stan venendo
tutti gli altri. Che pazzo sposalizio!
Quale non s’era proprio visto mai.
Ecco, sento suonare i musicanti.

(Musica da dentro)

Rientrano PETRUCCIO, CATERINA, BATTISTA, BIANCA, ORTENSIO, GRUMIO e il resto degli invitati
PETRUCCIO - Signori, amici, vi ringrazio molto
per il disturbo che vi siete preso.
So che pensate tutti
di pranzar con me, in questo giorno,
e so anche che han preparato in casa
un succulento banchetto di nozze.
Ma l’urgenza di molti gravi impegni
mi chiama altrove; e son perciò costretto
a prendere congedo da voi tutti.

BATTISTA - Non potete partire questa sera?

PETRUCCIO - Debbo andar subito, prima di notte.
Non vogliate stupirvene, signori.
Se sapeste che affari ho per le mani
mi direste voi stessi di partire.
Siete stati una buona compagnia,
e non posso che ringraziarvi ancora
per avermi assistito nel momento
in cui mi son concesso anima a corpo
a questa pazientissima, dolcissima
e virtuosissima mia cara sposa.
Rimanete, vi prego,
a pranzo col mio suocero Battista,
e fate un brindisi alla mia salute.
Io devo andare. Vi saluto tutti.

TRANIO - Concedeteci almeno
che vi si preghi di restar con noi
fin che finisca il pranzo.

PETRUCCIO - No, impossibile.

CATERINA - Che sia io a pregarti…
PETRUCCIO - Questo mi fa piacere.

CATERINA - … di restare?

PETRUCCIO - No, che sia tu a pregarmi di restare.
Ma per quanto pregare tu mi possa,
io, l’ho detto, non resto.

CATERINA - Se m’ami, resta.

PETRUCCIO - Grumio, il mio cavallo!

GRUMIO - Sì, signore, i cavalli sono pronti;
li foraggi han mangiato li cavalli.(72)

CATERINA - Ebbene, tu puoi fare come vuoi,
ma oggi, io, di qua, non muovo un passo.
E nemmeno domani, caro mio,
e fino a tanto che mi piacerà.
Quella è la porta e quella è la tua strada.
Trotta fin che ti reggan gli stivali!
Io non mi muovo, fin che ne avrò voglia.
Ti dimostri però un bel villano
a prenderla così fin da principio,
con quest’atteggiamento strafottente.

PETRUCCIO - Kate, ti prego, non andare in collera.
Sta’ quieta.

CATERINA - E invece ho voglia di arrabbiarmi.
Va bene? Tanto a te che può importare?
(A Battista)
State tranquillo, padre, resterà;
e fino a tanto che piacerà a me.

GREMIO - Ohi, ohi, perbacco, qui si mette male!

CATERINA - Signori, accomodatevi, vi prego,
al banchetto nuziale… Si fa presto,
lo so, a profittare di una donna,
se non ha spirito di resistenza.

PETRUCCIO - Facciano tutti come tu comandi.
Obbedite alla sposa,
voi tutti che le fate da corteggio.
A tavola! Mangiate, gavazzate
e brindate alla sua verginità.
E folleggiate tutti in allegria…
e chi non vuole vada ad impiccarsi!
Ma la mia Kate ha da venir con me.
Evvia, non fate quelle facce scure,
signori, non pestate i piedi a terra,
non stralunate gli occhi,
non mostratevi tanto contrariati!
Padrone sarò ben di quel ch’è mio;
ed ella è mia, ed ella m’appartiene,
come il mio patrimonio, le mie robe,
la mia casa, i miei mobili, il mio campo,
il mio granaio, le mie masserizie,
il mio cavallo, il mio bue, il mio asino,
il mio tutto. Sta qui davanti a me,
e s’azzardi a toccarla chi ha coraggio!
Chiunque ardisca di fermarmi a Padova,
dovrà affrontarmi. Grumio, spada in pugno!
Qui siamo circondato da ladroni!
Salva la tua padrona, se sei uomo!
(A Caterina)
Amore caro, non aver paura,
nessuno toccherà la mia Katina.
Ti farò scudo contro il mondo intero.

(Esce portandosi in braccio Caterina. Grumio li segue)
BATTISTA - Vadano pure una coppia pacifica.

GREMIO - Sì, tanto. Mi sarei morto dal ridere,
se fossero rimasti ancora qui.

TRANIO - Non ci fu mai più folle accoppiamento.

LUCENZIO - (A Bianca)
E voi, madamigella, che pensate
della sorella vostra?

BIANCA - Che matta lei, s’è maritata a un matto.

GREMIO - Già lo vedo il Petruccio: “katizzato”,
lo posso assicurare.

BATTISTA - Su, su, amici,
se pur ci manchino e sposa e sposo,
ad occupare i loro posti a tavola,
non mancheranno certo al nostro pranzo
succulente pietanze, lo sapete.
Lucenzio, allora siederete voi
al posto dello sposo, e così Bianca
al posto della sposa sua sorella.

TRANIO - Volete forse far provare a Bianca
come si fa la parte della sposa?

BATTISTA - Sì, Lucenzio. Suvvia, signori, a tavola!

(Escono entrando tutti in casa di Battista)
ATTO QUARTO


SCENA I - La villa di Petruccio in campagna
Entra GRUMIO
GRUMIO - Accidenti alle rozze senza fiato,
ai padroni ammattiti,
e alle strade fangose e impantanate!
Ci fu mai uomo più stanco di me,
più infangato, più morto di fatica?
M’hanno spedito avanti, i signorini,
perché accendessi loro il caminetto,
e loro vengon dopo a riscaldarsi.
Ah, se non fossi io stesso un pentolino
che fa presto a scaldarsi di per sé,
mi si congelerebbero le labbra
vicino ai denti, la lingua al palato,
il cuore alle pareti dello stomaco
prima che riuscissi a fare un fuoco
da scaldarmi. Mi basterà, io penso,
a riscaldarmi un po’ soffiar sul fuoco
per cercare di accenderlo;
se no, con questo diavolo di tempo,
si prenderà un cimurro anche un gigante.(73)
(Chiama)
Ohi, Curzio, dove sei?

Entra CURZIO
CURZIO - Chi è che chiama
con una voce così infreddolita?

GRUMIO - Un brandello di ghiaccio.
Se non ci credi, puoi venire qua
e scivolarti giù per la mia schiena,
fino ai calcagni, senz’altra rincorsa
che dalla testa al collo.
Curzio, da bravo, fammi un po’ di fuoco.

CURZIO - Sta arrivando il padrone con la sposa?

GRUMIO - Appunto, Curzio, sì, stanno arrivando.
E perciò, Curzio, fuoco, fuoco, fuoco!
E bada a non versarci sopra l’acqua.

CURZIO - E lei è proprio quella gran bisbetica
che si dice?

GRUMIO - Lo era, sì, buon Curzio,
prima di questo freddo maledetto.
Ma conosci il proverbio:
“L’inverno doma uomo, donna e bestia”;
e l’inverno ha domato il mio padrone,
la mia nuova padrona, ed anche me,
collega Curzio.

CURZIO - Bestia io non sono,
se lo sei tu, buffone da tre pollici!

GRUMIO - Io son solo tre pollici d’altezza?
Vediamo un po’: il tuo corno è alto un piede,
e almeno tanto sono lungo anch’io.
Ma ti decidi a fare questo fuoco?
O mi dovrò lamentare di te
con la nuova padrona, la cui mano,
ora ch’ella ti tiene sottomano,
sentirai presto a tuo freddo conforto
per esser stato sì poco zelante
nel tuo dovere d’accenderle il fuoco?

CURZIO - Lascia stare, buon Grumio, via, ti prego!
Dimmi piuttosto: il mondo come va?

GRUMIO - A tutto freddo, Curzio,
in ogni ufficio, tranne in quello tuo.
E quindi, fuoco! Compi il tuo dovere,
e avrai il tuo avere,
perché i padroni son gelati morti.

(Curzio accende il fuoco)

CURZIO - Eccolo, il fuoco è pronto. E adesso, Grumio,
da bravo, dimmi tu che c’è di nuovo.

GRUMIO - Ebbene, “Jack, ragazzo, ehi ragazzo!”(74)
ed altre novità così, a tua scelta.

CURZIO - Andiamo, Grumio, tu sei sempre pronto
a prendere per fessi le persone!

GRUMIO - Ebbene, allora fuoco!
Perché mi son buscato un raffreddore
dei più terribili. La cena è pronta?
Dov’è il cuoco? La casa è rassettata?
I soppiedani son distesi in camera?
la servitù hanno indossato tutti
le lor nuove uniformi di fustagno,
coi calzerotti bianchi: la montura,
insomma, fatta fare per ciascuno
pel giorno delle nozze del padrone?
E le caraffe son pulite fuori,
ed i quartini son puliti dentro?(75)
I tappeti son stesi? È tutto in ordine?

CURZIO - Tutto a posto; e perciò ti prego ancora,
le novità!

GRUMIO - Per prima cosa allora
sappi che il mio cavallo è stanco morto,
e che il padrone mio e la padrona
han perduto le staffe.

CURZIO - Come, come!

GRUMIO - Sì, son caduti fuori dalla sella,
in mezzo al fango… Eh, una lunga storia…

CURZIO - E tu raccontala.

GRUMIO - E tu dammi orecchio.

CURZIO - (Facendo l’atto di porgergli un orecchio)
Eccolo.

GRUMIO - (Gli dà uno schiaffo)
Toh!

CURZIO - Se questo è il tuo racconto,
così l’ho sol “sentito”, non l’ho udito.

GRUMIO - Perciò appunto si dice che un racconto
è “sentito”. E il ceffone sull’orecchio
era solo un bussare alla sua porta
e chiedergli di stare ad ascoltare.
Dunque allora comincio.
In primis, scendevamo tutti e tre
per una china piena di fanghiglia
ed il padrone cavalcava in groppa
di dietro alla padrona…

CURZIO - Come, come?
Sullo stesso cavallo tutti e due?

GRUMIO - E a te che importa?

CURZIO - Non a me, al cavallo!

GRUMIO - Uffa! E allora raccontala tu!
Se non m’interrompessi, avresti udito
come e qualmente il cavallo di lei
andasse a terra, e lei sotto il cavallo;
avresti udito in che sporco pantano
si sia trovata lei, tutta insozzata,
e come lui l’abbia lasciata lì
con sopra tutto il peso del cavallo,
e come se la sia presa con me,
e me l’abbia suonate di ragione,
quasi che fosse stata colpa mia
se il cavallo di lei era inciampato;
e lei a trascinarsi in mezzo al fango
per strapparmi da lui che mi picchiava;
e lui a bestemmiare,
e lei a scongiurarlo a mani giunte
come mai non l’avevo vista prima,
e io a urlare, e i cavalli a scappare,
e la briglia di quello suo spezzata;
e com’io ho smarrito la groppiera…
e poi tante altre cose
che sono degne d’esser ricordate,
ma che ora cadranno nell’oblio,
e tu ritornerai alla tua fossa
senza averle sapute.

CURZIO - Sembrerebbe, da questo tuo racconto,
che lui sia più bisbetico di lei.

GRUMIO - Oh, sì, e te ne accorgerai tu stesso
e tutti i più prepotenti tra voi,
quando tornerà a casa.
Ma che stiamo a parlarne? Chiama tutti,
Nataniele, Giuseppe, Nicolino,
Filippo, Walter, Saponetta e gli altri;
che si faccian trovare ben lisciati
nella persona e bene pettinati,
le giubbe azzurre bene spazzolate,
le giarrettiere annodate a dovere;
e che s’inchinino, mi raccomando,
sul ginocchio sinistro, e non s’azzardino
a toccare un sol crine della coda
del cavallo del mio signor padrone
senza aver prima baciato le mani
a lui e alla sua sposa. Sono pronti?

CURZIO - Sì, tutti pronti.

GRUMIO - Bene, allora chiamali.

CURZIO - (Chiamando)
Ehi, dentro, ci sentite?
Tutti fuori, a ricevere il padrone
e a far la faccia buona alla padrona.

GRUMIO - Perché la faccia? Non ha quella sua?

CURZIO - Certo! E chi non lo sa?

GRUMIO - Tu non lo sai,
a quanto pare, se chiami di fuori
la servitù per rifarle la faccia.

CURZIO - Li chiamo fuori per prestarle ossequio.

GRUMIO - Che prestare! Ma quella viene qui
senza voler da loro nessun prestito!

Entrano quattro-cinque SERVI
PRIMO SERVO - Oh, bentornato, Grumio.

SECONDO SERVO - Finalmente!

TERZO SERVO - Salute, Grumio.

QUARTO SERVO - Ciao, compagno Grumio.

PRIMO SERVO - Che novità ci porti, vecchio mio?

GRUMIO - Salute a tutti: a te… a te… a te…
(Dà la mano a ciascuno)
e coi saluti basterà così.

PRIMO SERVO - Qui tutto è pronto e in ordine perfetto.
Quanto manca all’arrivo del padrone?

GRUMIO - Dev’essere a momenti.
Penso sia già smontato da cavallo…
E perciò state attenti a non… Ssss, zitti!
Sangue di Cristo, sento la sua voce!

Entrano PETRUCCIO e CATERINA
PETRUCCIO - Beh, dove sono questi sciagurati?
Come! Nessuno di loro al portone
ad aspettarmi, a reggermi la staffa,
a togliermi la bestia?…
E dove sono tutti: Nataniele,
e Gregorio, e Filippo?…

TUTTI I SERVI - Siamo qui,
signore.
Qui, signore.
Qui, padrone.

PETRUCCIO - Che “signore”, e “signore”, e “qui padrone”!
Zucche di legno! Fior di villanacci!
E che! Nessuno ad accudire a me?
Nessun rispetto, nessuna premura?
E dove sta quel pezzo d’imbecille
che ho fatto andare innanzi di staffetta?

GRUMIO - Qui padrone. Imbecille come prima.

PETRUCCIO - Brutto villano figlio di puttana!
Asinaccio da macina d’olive!
T’avevo detto di venirmi incontro
nel parco e di portar con te anche loro,
questi lerci birbanti incanagliti!

GRUMIO - Il fatto è che, signore, Nataniele
non aveva la giubba proprio a posto;
e Gabriele aveva gli scarpini
tutti sdruciti all’altezza del tacco;
il cappello di Pietro
non s’è trovato un po’ di nerofumo
da qualche torcia per farlo più scuro,
e a Walter s’è inceppato lo stiletto
nel fodero; sicché di presentabili
non c’erano che Adamo, Ralf e Grigola:
il resto era robaccia rattoppata,
tutta una compagnia di stracci e sbrendoli.
Così son tutti venuti a incontrarvi
in quello stato.

PETRUCCIO - Via! Fuori dai piedi!
Disgraziati! Portatemi la cena.

(Escono i servi e Grumio con loro)

(Canta)
“Ah, dov’è più la vita
“ch’io conducevo ancora poco fa…
“Ah, dove stanno quelli…
Siediti, Kate, e benvenuta in casa!
Insomma, questa cena arriva o no?(76)
Rientrano alcuni servi con la cena
Alla buon’ora, ce l’avete fatta!
Su, su, Katina dolce, stammi allegra!
(Le siede accanto)
Canaglie, chi mi toglie gli stivali?
Andiamo, su, furfanti, ci vuol tanto?

(Canticchiando, mentre un servo s’inginocchia per sfilargli gli stivali)

“… e c’era inoltre un frate cappuccino
“che andava dritto per il suo cammino…”
Piano, furfante, che mi storci il piede!
Toh, prendi questo!
(Lo percuote)
E quando togli l’altro,
vedi di farlo meglio, manigoldo!
Allegra, mia Katina!… Olà, dell’acqua!
(A un altro servo)
Dov’è il mio spaniel Troilo? Tu, ragazzo,
fila da mio cugino Ferdinando
e digli di venire qui da me.

(Esce il servo)

È uno, Kate, che devi conoscere,
e abbracciare a baciare…
Le mie pantofole! Chi me le porta?…
E quest’acqua, l’avrò io, sì o no?

Entra un servo con dell’acqua e un catino

Ecco, Katina, rinfrescati il viso.
Ed ancora una volta, benvenuta!

(Il servo, nel versare l’acqua nel concavo delle mani di Caterina, ne fa cadere alcun gocce sulle gambe di Petruccio)

PETRUCCIO - Miserabile, me la butti addosso?
(Lo percuote)
CATERINA - Abbi pazienza, non l’ha fatto apposta.

PETRUCCIO - Testa di scarafaggio maledetto,
bastardo con le orecchie da somaro!…
Vieni, Katina, siediti.
Chissà che fame anche tu devi avere.

(Caterina si avvicina alla tavola)
Il “benedicite(77), dolce Katina,
lo dici tu, o devo dirlo io?…
(Al servo che sta per servire)
Questo cos’è, montone?

SERVO - Sissignore.

PETRUCCIO - Chi l’ha portato?

SERVO - Io.

PETRUCCIO - Tutto bruciato!
Come del resto tutti gli altri piatti.
Ma che razza di cani son costoro?
Quel furfante di cuoco dove sta?
Come osate, canaglie,
trarre dalla dispensa questa roba
e servirmela a tavola così,
sapendo quanto mi sia indigesta?
Via, portatevi indietro piatti, coppe,
e tutto il resto…
(Lancia addosso ai servi piatti e vivande, urlando)
Ignobili testoni!
Razza di sporchi schifi screanzati!
Ah, brontolate?… Ora v’aggiusto io!

(Li caccia via tutti a scappellotti, tranne Curzio)

CATERINA - Marito mio, ti prego,
non farti prendere così dall’ira;
quella carne era buona da mangiare,
se ti fossi così accontentato.

PETRUCCIO - E io ti dico ch’era tutta scotta,
tutta bruciata, tutta rinsecchita,
e il medico m’ha fatto espressamente
divieto di toccar roba del genere,
perché contiene i germi del colera
e produce la bile; ed a noi due
che siamo un po’ biliosi di natura
convien piuttosto restare a digiuno
che mangiar carne così arrostita.
Perciò abbi pazienza,
ci rifaremo bene domattina.
Per questa notte si digiuna insieme.
Vieni, andiamo alla tua stanza nuziale.

(Escono seguiti da Curzio)
Rientrano alcuni SERVI da parti diverse, GRUMIO con loro.

PRIMO SERVO - Avete visto mai niente di simile?

SECONDO SERVO - L’ammazza con le stesse armi di lei.(78)

Rientra CURZIO

GRUMIO - Lui dov’è?

CURZIO - Nella camera di lei,
che non cessa di farle un predicozzo
sul saper digiunare,
e urla e strepita, in modo tale
che la meschina non sa da qual parte
rivoltarsi né dove buttar gli occhi:
se ne sta rannicchiata in un cantuccio,
come si fosse svegliata da un sogno.
Via tutti, che sta ritornando qui!

(Escono tutti)

Rientra PETRUCCIO
PETRUCCIO - E così, con politica sapienza,
ho iniziato il regime del mio regno,
ed ho speranza di condurlo a termine
felicemente. La mia falconella
muore di fame ed ha la pancia vuota.
Finché non sarà stata ammaestrata,
non si dovrà pensare a riempigliela,
altrimenti non sente più il richiamo.(79)
Conosco inoltre un altro buon sistema
per addomesticare il mio rapace
e far che mi ritorni
riconoscendo al suono della voce
il richiamo del suo uccellatore:(80)
consiste nel tenerla sempre sveglia,
come appunto si fa con quei rapaci
che dan di becco e sbatacchiano l’ali
perché recalcitranti ad obbedire.
Non ha toccato cibo tutto il giorno,
e non ne toccherà, gliel’assicuro.
La notte scorsa non ha chiuso occhio,
né lo potrà stanotte. In sovrappiù,
come ho fatto col cibo, troverò
qualcosa ch’ella ha fatto e che non va:
come ha rifatto il letto, per esempio;
e butterò da una parte il cuscino,
da un’altra la coperta, le lenzuola,
e in mezzo a tutta questa baraonda,
terrò il punto con lei che faccio questo
solo pel premuroso mio rispetto
ed il grande riguardo che ho per lei.
In conclusione, dovrà restar sveglia
ancor tutta la notte;
e se dovesse appena appisolarsi,
comincerò a gridare a squarciagola
e a snocciolarle in faccia tanti moccoli,
che si dovrà per forza tener sveglia.
È questo il solo metodo sicuro
per ammansir la moglie: con dolcezza,
ed è con esso ch’io mi saprò imporre
al suo umore pazzo ed ostinato.
Chi ne conosca alcuno più efficace
per domare una femmina cocciuta,
si faccia avanti e parli,
ché questa è carità farlo sapere.

(Esce)
SCENA II - Padova, davanti alla casa di Battista.

Entrano TRANIO (nelle vesti di Lucenzio) e ORTENSIO (nelle vesti di Licio)
TRANIO - Amico Licio, non mi par possibile
che non vi siano, al di fuor di Lucenzio,
altri da cui madamigella Bianca
si sia potuta sentire attirata.
Posso dirvi, signore
ch’io le riesco oltremodo simpatico.

ORTENSIO - Se non credete a quello che vi dico,
amico mio, mettetevi in disparte
ed osservate adesso, attentamente,
il modo con il quale lui le insegna.

Entrano LUCENZIO (nelle vesti di Cambio), e BIANCA

LUCENZIO - Ebbene, padroncina,
credete d’aver tratto alcun profitto
da quello che leggete?

BIANCA - E voi, maestro, che cosa leggete?
Ditemi prima voi. Sono curiosa.

LUCENZIO - Leggo quel che professo, l’“Ars amandi(81)

BIANCA - E di quest’arte possiate, signore,
dimostrarvi padrone.

LUCENZIO - E lo sarò
per tutto il tempo che voi, amor mio,
resterete padrona del mio cuore.

(Si allontanano)

ORTENSIO - Perbacco, vanno svelti, questi due!
Ed ora ripetetemi, di grazia,
dopo averlo giurato ai quattro venti,
che la vostra madamigella Bianca
possa amar alcun altro che Lucenzio.

TRANIO - Oh, dispettoso amore!
Oh, volubile sesso femminino!
Lasciatemelo dire, caro amico,
questo è quanto di più stupefacente!

ORTENSIO - È inutile continuare a fingere,
a questo punto: io non sono il Licio,
né il musico che mi son dato a credere,
ma uno che si sente ormai scornato
a vivere in un tal travestimento,
per una che rinuncia a un gentiluomo
per farsi un dio d’un simile coglione!
Sappiate, amico, ch’io mi chiamo Ortensio.

TRANIO - Signor Ortensio! Spesso udii parlare
del grande amore che portate a Bianca;
ma ora che i miei occhi testimoni
mi sono stati di quanto è leggera,
mi unisco a voi, se me lo consentite,
nel ripudiare Bianca ed il suo amore,
per sempre.

ORTENSIO - Ecco, toh, guardate là
come si baciano, come amoreggiano:
Signor Lucenzio, eccovi la mia mano,
e qui faccio solenne giuramento
di mai più ritornare a corteggiarla,
anzi, dico di più, di ripudiarla
siccome indegna dei molti favori
ond’io l’ho circondata fino ad oggi.

TRANIO - Ed io del pari, con il cuore in mano,
giuro con voi che mai vorrò sposarla,
venisse ella a pregarmene in ginocchio!
Svergognata! Guardatela,
come si striscia a lui. La bestia in foja!

ORTENSIO - Oh, possa esser da tutti rinnegata,
meno che da quel solo. In quanto a me,
per esser più sicuro di me stesso
nel mantenere questo giuramento,
sarò sposato dentro quattro giorni
ad una ricca vedova
che ha seguitato tuttavia ad amarmi
pel tempo che ho perduto a far la corte
a questa altera e sdegnosa cornacchia.
Ed io da voi così prendo congedo,
deciso a mantener quanto giurato.

(Esce)
TRANIO - (Avvicinandosi a Bianca e Lucenzio)
Madonna Bianca, vi conceda il cielo
tutte le grazie che felice amante
può meritare. V’ho colta in fragrante,
bellezza mia, e insieme con Ortensio
vi ho ripudiata.

BIANCA - Tranio, voi scherzate.
Mi avete dunque ripudiata entrambi?

TRANIO - Madamigella, sì.

BIANCA - Vuol dire che ci siamo liberati
anche di Licio allora?

TRANIO - Infatti, sì.
Andrà a sposarsi una cospicua vedova,
corteggiamento e nozze in sol giorno.

BIANCA - Il cielo gli dia gioia!

TRANIO - E si propone di addomesticarla.

BIANCA - Così v’ha detto, Tranio?

TRANIO - Parola mia, è andato giusto a scuola
di addomesticatura.

BIANCA - Una scuola… di addomesticatura…
Ed esiste davvero un luogo simile?

TRANIO - Sissignora, e Petruccio è l’insegnante.
Vi s’insegnano mille e mille trucchi
per ammansire una moglie bisbetica
e incantare la sua lingua pettegola.

Entra BIONDELLO
BIONDELLO - O padrone, padrone, che stanchezza!
Mi son stancato morto a star lì fermo,
in vedetta, per tutto questo tempo!
Ma ho visto venir giù per la collina,
come un angelo, un vecchio gentiluomo,
che farebbe, mi pare, al caso nostro.

TRANIO - Che tipo è?

BIONDELLO - Un mercante, mi pare,
o un pedante,(82) non so; ma dal vestito,
dal portamento e dalla camminata
è certamente un padre di famiglia.

LUCENZIO - E che dovremmo farcene?

TRANIO - Se mai fosse disposto a farmi credito
della storia che gli racconterò,
sono sicuro di poterlo indurre
a recitare più che volentieri
la parte di Vincenzo, vostro padre,
e a prestar la richiesta sicurtà
a ser Battista Minola,
come fosse Vincenzo, quello vero.
Portatevi con voi la vostra bella,
entrate in casa, e lasciatemi fare.

(Escono Lucenzio e Bianca, entrando in casa di Battista)

Entra un PEDANTE
PEDANTE - Buongiorno a voi, signore.

TRANIO - Ed altrettanto a voi, e benvenuto.
Siete qui di passaggio?
O siete al termine del vostro viaggio?
PEDANTE - Al termine, signore; ma per poco,
solo una settimana o forse due;
perché dovrò proseguire per Roma,
indi a Tripoli, se Dio mi dà vita.

TRANIO - Di che paese siete, se m’è lecito?

PEDANTE - Di Mantova.

TRANIO - Di Mantova signore?!…
Per la Vergine Santa, Dio vi guardi!
E vi siete portato fino a Padova
senza temere per la vostra pelle?

PEDANTE - Per la mia pelle, signore? Perché?

TRANIO - Perché?… Perché qui a Padova c’è morte
per ogni mantovano che ci càpita.
Com’è? Non ne eravate a conoscenza?
Tutte le vostre navi son bloccate
all’àncora nelle acque di Venezia,
e il Doge, a causa d’una vecchia disputa
tra lui e il vostro Duca,
ha fatto affiggere su tutti i muri
la cosa ed anche proclamarla in pubblico.
Strano. Se foste giunto poco prima,
avreste udito leggere il proclama.

PEDANTE - Ahimè, più rovinosa circostanza
non mi poteva capitare, amico.
Ho con me delle lettere di credito
tratte da alcune banche di Firenze
che dovrei incassare proprio qui.

TRANIO - Ebbene amico, per farvi un favore,
posso vedere di fare qualcosa,
o almeno consigliarvi… Prima ditemi:
siete mai stato a Pisa?

PEDANTE - Oh, sì, signore,
a Pisa sono stato spesse volte.
Pisa, città famosa
per i suoi contegnosi cittadini.

TRANIO - E non avete mica conosciuto
tra questi un tal Vincenzo?

PEDANTE - Non di persona, ma ne udii parlare:
un mercante oltremodo facoltoso.

TRANIO - È mio padre, signore; e a dire il vero
somiglia a voi in modo impressionante…

BIONDELLO - (A parte)
Spiccicato: come una mela a un’ostrica.

TRANIO - … ed io, per amor suo,
vo’ darvi modo di salvar la vita
in un frangente d’estremo pericolo
com’è questo per voi,
e voglio usarvi questa cortesia,
che oltretutto vi farà pensare
non essere il peggior dei vostri guai
la vostra somiglianza con Vincenzo:
perché ne assumerete il nome e il credito
e sarete alloggiato a casa mia
come un amico. Ma, mi raccomando,
fate di recitar bene la parte,
voi m’intendete, perché in questo modo
potrete rimanere qui in città
finché abbiate sbrigato i vostri affari.
Se pensate che questo vi sta bene,
signore, non avete che accettare.

PEDANTE - Ma certo che l’accetto, e di buon grado!
E vi terrò in eterno, signor mio,
di mia vita patrono e protettore.

TRANIO - Allora favorite a casa mia.
Sistemeremo al meglio la faccenda.
A proposito, ho ancor da dirvi questo:
mio padre è atteso qui da un giorno all’altro
per prestare la sicurtà dotale
al contratto di nozze
tra me e la figlia di un certo Battista.
Sui dettagli di tutta la questione
vi fornirò ulteriori chiarimenti.
Vogliate intanto venire con me,
vi darò da indossare altri vestiti
che si convengano al vostro stato.

(Escono)
SCENA III - Stanza in casa di Petruccio
Entrano CATERINA e GRUMIO

GRUMIO - No, proprio no! E chi ce n’ha il coraggio?

CATERINA - Più soprusi mi fa,
e più si mostra furioso con me.
Che diavolo! M’ha dunque presa in moglie
sol per vedermi soffrire la fame?
I poveri affamati mendicanti
che vengono alla porta di mio padre
non hanno che da stendere la mano
per ricever gli avanzi della tavola;
e se non trovan là,
trovano sempre altrove qualcheduno
ch’è disposto a far l’elemosina.
E io, che in vita mia,
non ho saputo mai che cos’è chiedere,
né mai n’ebbi bisogno, son ridotta
ora a soffrire i morsi della fame
e i capogiri da sonno mancato
per essere costretta a stare sveglia
dall’incessante suo sacramentare,
e a nutrirmi soltanto dei suoi strilli.
Ma quel che m’indispone più di tutto,
ben al di là di queste privazioni,
è lui, che vuol impormi tutto questo
con l’aria di chi intende solo farlo
per il mio personale giovamento,
quasiché col magiare e con il bere
io mi buscassi chi sa qual grave male,
se non subita morte.
Va’, ti prego, procurami un boccone
di qualche cosa, qualunque essa sia,
purché mangiabile e digeribile.

GRUMIO - Che direste di un coscio di vitello?

CATERINA - Che sarebbe davvero delizioso.
Vammene a procurare, te ne prego.

GRUMIO - Ho paura però
che sia qualcosa di troppo collerico.
Che ne direste d’una bella trippa,
ben rosolata?

CATERINA - Oh, ne vado matta!
Valla a prendere, Grumio, su, da bravo.

GRUMIO - Son piuttosto perplesso, tuttavia,
temo che sia collerica anche questa.
Una fetta di rosbiff con mostarda?

CATERINA - È tra le mie pietanze preferite.

GRUMIO - Già, però la mostarda è calorosa.

CATERINA - Allora portami soltanto il rosbiff,
e lascia la mostarda.

GRUMIO - Eh, questo no,
io non lo faccio: o rosbiff e mostarda,
o Grumio non vi porta nessun rosbiff.

CATERINA - Al diavolo, furfante illusionista!
E che! Pretendi forse di sfamarmi
nominandoli solo, questi piatti?
Toh, tieni, screanzato villanzone!
(Lo percuote)
Ti colga il più schifoso dei malanni,
a te e a tutta questa tua combriccola,
tutti felici della mia disgrazia!
Vattene via! Fuori dai piedi, dico!

Entrano PETRUCCIO e ORTENSIO.
Petruccio porta un piatto con della carne.
PETRUCCIO - Come sta la mia Kate?… Mia dolcissima,
che cos’è quella cera così smorta?

ORTENSIO - Signora, come va?

CATERINA - In fede, peggio non potrebbe andare.

PETRUCCIO - Oh, no, mia cara, ritrova il tuo spirito,
guardami, fammi un bel sorriso, Kate.
Ecco, lo vedi, amore, questo piatto
io stesso mi son preso la premura
di preparartelo. Sono sicuro
che questa cortesia, mia dolce Kate,
meriterà che tu mi dica “grazie”.
Ah, non una parola?… Che peccato!
Allora non è cosa di tuo gusto.
E così tutte le fatiche mie
non saranno servite proprio a nulla.
(A Grumio)
Toh, vieni qua, porta via questo piatto.

CATERINA - No, no, lascialo stare qui, ti prego.

PETRUCCIO - Eh, no, un servizio, umile che sia,
vien ripagato almeno con un “grazie”.
E così dovrà essere del mio,
da te, prima che tocchi questo piatto.

CATERINA - Ti ringrazio, signore.

ORTENSIO - Evvia, Petruccio!
Vergogna! Meriti riprovazione!
Suvvia, signora Kate,
sarò qui io a farvi compagnia.

PETRUCCIO - (A parte, a Ortensio)
Mangialo tutto tu, se mi vuoi bene.
(Forte)
E questo cibo, rechi, Caterina,
anche conforto al tuo cuore gentile.
Cerca però di mangiare alla svelta
perché subito dopo, dolce amore,
torneremo alla casa di tuo padre
per festeggiare il nostro matrimonio
come s’addice alla gente migliore:
con abiti di seta, anelli d’oro,
e gorgiere di trina, e manicotti
e portinfante ed altri begli aggeggi,
scialli, ventagli, doppie guarnizioni,
e braccialetti d’ambra, e collanine
e tutti gli altri fronzoli del caso.
Bene, allora hai finito di mangiare?
Il sarto è qui che aspetta i tuoi comandi
per adornare la tua personcina
con le fruscianti sue preziosità.

Entra un SARTO

Vieni sarto, vediamo queste stoffe.

Entra un MERCIAIO
E tu, messere, che rechi di nuovo?

MERCIAIO - Ecco, vossignoria,
il cappello da voi commissionatomi.

PETRUCCIO - Oh, che roba è mai questa?… Di velluto!
L’hai modellato su di una scodella…
Un piatto di velluto… Una schifezza!
Un cappellaccio sconcio e sconveniente.
Pare un guscio di noce, una conchiglia,
un croccante, un giocattolo, uno scherzo,
o anche una cuffietta da neonato…
(Lo getta in un angolo)
Via questa roba! Lo voglio più grande!

CATERINA - Più grande di così
son io che non lo voglio. Questo qui
è di moda, lo portan così
le gentildonne.

PETRUCCIO - E l’avrai anche tu,
quando ti sarai fatta più gentile.
Per ora niente.

ORTENSIO - (A parte)
Hai voglia d’aspettare!(83)

CATERINA - Signore, credo che mi sia permesso
almeno di parlare. E parlerò.
Non sono né una bimba,
né la prima arrivata in questo mondo.(84)
Gente di te più alta e più importante
m’ha fatto sempre dire,
senza mostrare un’ombra d’impazienza,
tutto quello che mi venisse in bocca.
Se tu non puoi, attùrati le orecchie.
La lingua deve pur sfogar la rabbia
che brucia dentro; altrimenti a reprimerla
c’è pericolo che gli scoppi il cuore;
ed io, prima che mi succeda questo,
voglio sentirmi libera di dire
tutto quel che mi pare e che mi piace.

PETRUCCIO - Hai ben ragione. È giusto quel che dici.
Quel cappello è uno sconcio,
una crostata, un timballo di seta,
una cosa da niente. E son contento
di vedere che anche a te non piace.

CATERINA - Contento o no, il cappello mi piace,
e voglio averlo: o quello, o nessun altro!

(Grumio licenzia il merciaio, che esce col cappello)
PETRUCCIO - E la tua veste? Ah, sì!
Vieni qui, sarto, faccela vedere…
Oh, santo Dio, che mascherata è questa?…
E qui che c’è, una manica?
Pare la mezza canna di un cannone.
E guarnita di frappe, in su e in giù,
che rassomiglia a una torta di mele;
e tagli, e spacchi, e pizzi, e spicchi, e sbuffi,
come un bruciaprofumi da barbiere.
Ma, corpo d’un demonio!, signor sarto,
come la chiami tu una roba simile?

ORTENSIO - (A parte)
Ho capito: da come si profila,
lei non avrà né veste né cappello.

SARTO - Ho fatto quel che m’avete ordinato,
signore mio: un lavoro di prezzo,
e conforme alla moda e alla stagione,

PETRUCCIO - E così io ti dissi, per la Vergine!
Ma non ti dissi certo
di trasformarlo in questa sconcia foggia
per seguire il capriccio della moda!
Va’, va’, vattene a casa, saltafossi,
ché ti verrà più facile saltarli
sgravato delle mie ordinazioni!
Non so che farmene, di questa roba.
Va’, fanne pure quello che vuoi tu.

(Il sarto non esce, ma resta sbalordito a guardare Caterina)

CATERINA - Per me, non ho mai visto
una veste di taglio più perfetto,
più attraente, elegante ed alla moda.
Non ti sarai per caso messo in mente
di far di me una bambola di legno?

PETRUCCIO - Eh, dici bene quel che dici: è lui
(Indica il sarto)
che vuol fare di te una pupattola.

SARTO - Ella ha detto, signore, perdonatemi,
che a voler far di lei una pupattola
non sono io, ma vostra signoria.

PETRUCCIO - O guarda tu qual mostruosa arroganza!
Tu menti, fil di refe, salvadito,
mezza yarda, tre-quarti, un-quarto, un’unghia,
tu pulce, lèndine, grillo invernale!
Devo essere insultato in casa mia
da una matassa?… Via di qua, straccione,
ritaglio, scampolo, avanzo di stoffa,
o ti misuro io quanto sei lungo
colla stecca di legno del tuo metro,
a insegnarti a pensar senza riflettere,
fin che campi! T’ho detto e ti ripeto
che questa veste tu l’hai massacrata!

SARTO - Vossignoria si sbaglia;
la veste è stata fatta esattamente
come ordinato. È stato il vostro Grumio
a darmi tutte le vostre istruzioni.

GRUMIO - Io, istruzioni non gliene ho mai date,
signore: gli portai solo la stoffa.

SARTO - E come ci ordinaste fosse fatto?

GRUMIO - O santo cielo! Coll’ago e col filo!

SARTO - E il taglio?

GRUMIO - Tu di panni n’hai tagliati
addosso a tanti…

SARTO - Certo.

GRUMIO - Ma a me, no.
Io non voglio né fronzoli né tagli;
Ti dico che ordinai al tuo padrone,
di tagliare la veste, sissignore,
ma non tagliarla a pezzi. Ergo tu menti.

SARTO - Ebbene, ecco la prova:
la nota d’ordine, che ne fa fede.

PETRUCCIO - Leggila dunque.

GRUMIO - Quella nota è falsa(85)
se c’è scritto che io così gli ho detto.

SARTO - (Leggendo)
“Imprimis(86), una gonna scampanata…

GRUMIO - Se gli ho mai detto “gonna scampanata”,
padrone, beh, cucitemici dentro,
e fatemi morir di battiture
come un gomitolo di filo scuro.
Io gli dissi “una gonna”, e niente più!

PETRUCCIO - Leggete.

SARTO - (c.s.)
“… con un collarino tondo…”

GRUMIO - Il collarino, quello sì, confesso…

SARTO - (c.s.)
“… e con le maniche cucite a sbuffo…”

GRUMIO - Sissignore, la maniche, confesso…

SARTO - (c. s.)
“… e tagliate con frappe originali”.

PETRUCCIO - Eccola, la schifezza!

GRUMIO - C’è un errore,
nella nota, signore, c’è un errore!
Ah, sì, gli dissi di tagliar la maniche,
ma poi di ricucirle, monsignore.
(Al sarto)
E di questo ti porterò la prova
quand’anche tu ti armassi il dito mignolo
di un ditale di ferro.

SARTO - Quello che dico è pura verità,
e vorrei che tu fossi in altro luogo
che dico io, per fartelo capire.

GRUMIO - Eccomi, sono a tua disposizione:
tu impugna come arma la tua nota,
e a me dammi la stecca del tuo metro,
e fatti sotto, senza complimenti.

ORTENSIO - Eh, Grumio, questo no, la Dio mercé,
non sarebbe uno scontro ad armi pari.

PETRUCCIO - (Al sarto)
Per concludere, amico, questa veste
non è per me.

GRUMIO - Giustissimo, signore:
la veste infatti è per la mia padrona.

PETRUCCIO - Perciò va’ pure, va’, tirala su,
e il tuo padrone l’usi a suo piacere.

GRUMIO - Eh, no, eh, no, gaglioffo!
Questo poi no! Tirare su la veste
alla padrona mia,
perché il padrone tuo ne possa usare
a suo piacere!(87)

PETRUCCIO - Che ti salta in mente?

GRUMIO - Eh, padrone, quel che mi salta in mente
è più profondo di quanto pensiate.
Tirare su la veste alla padrona,
che il suo padrone l’usi a suo piacere!
Ah, vergogna, vergogna!

PETRUCCIO - (A parte a Ortensio)
Di’ tu al sarto,
Ortensio, che provvederai tu stesso
a farlo liquidare.
(Al sarto)
Via, via, fila,
sbarazzami di questa mercanzia,
e zitto, non una parola in più.

ORTENSIO - (A parte, al sarto)
Penserò io domani a liquidarti
per la veste. Non prendertela a male
per questa sua sfuriata.
Adesso va’, e saluta il tuo padrone.
(Esce il sarto)

PETRUCCIO - Bene, ora, mia Kate,
ritorneremo a casa di tuo padre,
in queste vesti semplici ed oneste.
Le nostre borse saranno superbe,
ma siano povere le nostre vesti.
È lo spirito che fa ricco il corpo.
E come il sole irrompe luminoso
attraverso le nuvole più nere,
così filtra la luce dell’onore
attraverso le vesti più dimesse.
Forse che la ghiandaia
è uccello più prezioso dell’allodola,
perché più variegate ha le sue piume?
O la serpe è migliore dell’anguilla
sol perché la sua pelle variegata
allegra più il nostro occhio?… No, Katina!
Né, parimenti, tu sei meno bella
per questo tuo aspetto disadorno
e per la povertà del tuo vestire.
Se poi pensi che ciò ti sia vergogna,
lasciala ricadere su di me:
tu non darti pensiero, e stammi allegra.
Adesso ce n’andiamo da tuo padre
a far festa alla grande e a divertirci,
e mettiamoci in viaggio senza indugio.
Vediamo un po’… saran circa le sette:
saremo là per l’ora della cena.

CATERINA - Mi permetto di farti rilevare,
che sono ormai circa le due, mio caro;
e che l’ora di cena sarà prima
che noi possiamo giungere laggiù.

PETRUCCIO - Beh, vorrà dire che saran le sette
prima ch’io monti in sella!
Però, ecco, lo vedi? Come al solito,
qualunque cosa io dica, o faccia, o pensi,
tu sei sempre lì pronta a contraddirmi.
Lasciate stare ogni cosa, signori;
per oggi non si parte;
e quando mi deciderò a partire
sarà per l’ora che avrò detto io!

ORTENSIO - (A parte)
Perbacco, questo baldo giovinotto
è capace di comandare al sole!
(Escono)
SCENA IV - Padova, davanti alla casa di Battista.
Entrano TRANIO (nelle vesti di Lucenzio) e il PEDANTE (nelle vesti di Vincenzo)
TRANIO - La casa di Battista è qui, signore.
Posso chiamare?

PEDANTE - Certo, e perché no?
Questo signor Battista, se non sbaglio,
dovrebbe ben ricordarsi di me:
una ventina circa d’anni fa,
a Genova, alloggiammo entrambi al “Pegaso”.

TRANIO - Bene, ma procurate, in ogni caso,
di comportarvi con l’austerità
che s’addice ad un padre.

PEDANTE - V’assicuro.

Entra BIONDELLO
Ma, signore, ecco, viene il vostro servo.
Sarebbe bene ammaestrarlo un po’
nella sua parte.

TRANIO - Nessuna paura.
Ehi, compare Biondello,
attento bene a quel che devi fare,
mi raccomando: tu devi far conto
che questo sia il vero Vincenzo.

BIONDELLO - Per me, state tranquillo.

TRANIO - Hai fatto l’ambasciata a ser Battista?

BIONDELLO - Certo: che vostro padre era a Venezia,
e voi l’aspettavate oggi a Padova.

TRANIO - Sei un ragazzo in gamba.
Toh, prendi questo e fatti una bevuta.
(Gli dà del denaro)
Ma ecco appunto il nostro ser Battista.
(Al Pedante)
Datevi l’aria che vi si conviene.

Entrano BATTISTA e LUCENZIO (nelle vesti di Cambio)

Oh, ser Battista, lieto d’incontrarvi!
(Al Pedante)
Ecco, signore, questo è il gentiluomo
del quale vi ho parlato. Padre mio,
ora vi prego d’essermi garante
ch’io abbia Bianca in cambio dei miei beni.

PEDANTE - Eh, piano, figlio mio!…
(A Battista)
Con licenza, signore, vi dirò
che, essendo venuto io a Padova
col fine d’incassare certi crediti,
mio figlio, qui, Lucenzio, m’ha informato
di un amoroso affare, molto serio,
tra lui e vostra figlia.
Ed io, tenuto conto del buon nome
di cui godete, nonché dell’amore
ch’egli ha per vostra figlia, e lei per lui,
stimai esser consiglio di buon padre
di non farlo aspettare troppo a lungo
per mettere su casa;
sicché s’anche a voi la cosa piace,
io son pronto, con gli opportuni patti,
a consentire ch’egli se la sposi;
ché, non è certo il caso, ser Battista,
ch’io mi metta ad andare pel sottile
con uno come voi,
del quale ho udito dire sì gran bene.

BATTISTA - Ed io, signore, con licenza vostra,
vi devo dire che ho gradito assai
la concisione e la schiettezza vostra.
È vero, vostro figlio, qui, Lucenzio,
ama mia figlia, ed ella pure l’ama;
palesemente; se così non fosse
sarebbero due gran simulatori
dei loro rispettivi sentimenti.
Se voi dunque non dite più che questo:
che vi comporterete da buon padre
verso di lui, assegnando a mia figlia
per superdote un “quantum” sufficiente,
il matrimonio è subito concluso,
non resta altro da fare.
Il vostro figlio avrà il mio consenso
a condurre per moglie la mia figlia.

TRANIO - Grazie, signore. Dite voi, allora,
dove credete sia più opportuno
che ci riuniamo a stendere il contratto
e ad assumer ciascuno quegli impegni
da osservare dall’una e l’altra parte.

BATTISTA - Oh, non a casa mia, in ogni caso!
Per via che io ho molta servitù,
ed anche voi, Lucenzio, ben sapete
che le mura hanno orecchi per sentire.
E inoltre il vecchio Grumio è sempre lì,
con l’orecchio appuntito, e può accadere
che ci vediam costretti ad interrompere.

TRANIO - Allora a casa mia, se vi sta bene.
È là, del resto, che alloggia mio padre.
E là, stasera, in tutta segretezza
metteremo ogni cosa in bella forma.
Mandate pure questo vostro servo
(Indica Lucenzio/Cambio)
a chiamar vostra figlia; io mando il mio
in cerca del notaio. Mi dispiace
che con un così breve preavviso,
dovrete rassegnarvi a consumare
una frugale e misera cenetta.

BATTISTA - D’accordo. Cambio, andate dunque a casa,
e dite a Bianca di tenersi pronta
al più presto; e potete riferirle,
se volete, quel che è successo qui:
cioè che il padre di Lucenzio è a Padova,
e ch’ella diverrà, probabilmente,
la moglie di Lucenzio.

(Esce Lucenzio)
BIONDELLO - E che ciò sia,
io prego il cielo con tutto il mio cuore.(88)

TRANIO - Non scherzare col cielo, e fila, va’.

(Biondello esce)
Signor Battista, posso farvi strada?
Vo’ darvi il benvenuto a casa mia,
dove però a ricevervi alla mensa
non ci sarà che una sola pietanza.
Ma venite, signore; poi, a Pisa,
ci rifaremo alla grande.

BATTISTA - Vi seguo.
(Escono)

Rientrano LUCENZIO (Cambio) e BIONDELLO, incontrandosi

BIONDELLO - Cambio!

LUCENZIO - Che vuoi, Biondello?

BIONDELLO - Avete visto come il mio padrone
vi guardava ammiccando, e sorrideva?

LUCENZIO - Ebbene, che vorresti dir con ciò?

BIONDELLO - Oh, nulla. M’ha lasciato indietro apposta,
perché vi dessi appunto spiegazione
della morale e del significato
di questo suo gestire ed ammiccare.

LUCENZIO - Ebbene, moralizzalo, ti prego.

BIONDELLO - È questo: che Battista è cucinato;
sta conversando, in piena buona fede,
col finto padre d’un finto suo figlio.

LUCENZIO - Ebbene, e che con ciò?

BIONDELLO - La figlia Bianca
sta per essere accompagnata a cena
a casa vostra…

LUCENZIO - E allora?

BIONDELLO - E allora alla parrocchia di San Luca
il vecchio prete è pronto a tutte l’ore…

LUCENZIO - E tutto ciò che sta a significare?

BIONDELLO - Mah, non sta a me di dirvelo…
Ma, mentre essi son riuniti là
a scambiarsi mentite garanzie,
garantitevi intanto voi di lei
cum privilegio ad imprimendum solem(89),
correte in chiesa, prendetevi il prete
col chierico ed alcuni testimoni
che siano validi, e… Ma se poi voi
non è a concluder questo che tendete
non mi resta che darvi questo avviso:
dite addio per sempre e un giorno a Bianca,
e buona notte al secchio.


LUCENZIO - Ebbene, ascolta, Biondello…

BIONDELLO - Non posso.
Non posso più indugiare qui con voi.
Una volta conobbi una ragazza
che si trovò sposata un pomeriggio
ch’era scesa nell’orto solo un attimo
per cogliere due foglie di prezzemolo.
Così potete fare voi, signore.
E intanto vi saluto. Il mio padrone
m’ha incaricato, in tutta segretezza,
di recarmi alla chiesa di San Luca
per dire al prete di tenersi pronto
per quando arriverete voi laggiù
in compagnia della vostra appendice.

(Esce)

LUCENZIO - Quel che dice Biondello io posso farlo;
anzi lo voglio, se anche lei vuole…
Ma sì, ma sì, che ne sarà felice!
Perché esitare? Accada quel che accada,
vado a sbrigarla subito con lei.
Povero Cambio, se dovesse perderla!(90)

(Esce)
SCENA V - Padova, una strada.
Entrano PETRUCCIO, CATERINA, ORTENSIO e servi
PETRUCCIO - Ebbene, andiamo, se così si deve!
Ancora e sempre a casa di tuo padre!
Dio, come chiara e bella
splende la luna in cielo!

CATERINA - Quale luna? Il sole!
Il sole! Questo non è chiar di luna.

PETRUCCIO - E io ti dico invece che è la luna
quella che sì gloriosa splende in cielo.

CATERINA - E io sono certissima ch’è il sole!

PETRUCCIO - Insomma, per il figlio di mia madre,
che sarei io, di qui io non mi muovo
per andare alla casa di tuo padre,
se quella non è luna, o non è stella,
o quello che mi passa per la mente!
(Ai servi)
Voi, riportatevi indietro i cavalli.
Sempre che devo esser contraddetto!
Sempre di più!

ORTENSIO - Signora Caterina,
dite anche voi ch’è come dice lui,
o noi di qui non ci muoviamo più.

CATERINA - (A Petruccio)
Visto che abbiamo fatto la fatica
di arrivare fin qui, ti prego, andiamo,
sia pur quello lassù, la luna o il sole,
o quel che più ti piace:
chiamalo mozzicone di candela,
se ti garba, perché da ora in poi,
giurerò che per me sarà lo stesso.

PETRUCCIO - Io dico che è la luna.

CATERINA - Sì, è la luna.

PETRUCCIO - E invece menti. Quello è il sacro sole!

CATERINA - E allora sarà, sì, il sacro sole,
Dio benedetto! O non sarà più sole,
se tu dichiari che sole non è.
Così la luna non sarà più luna,
se tu dichiari che luna non è.
Sii tu a chiamarla con un nome, e basta:
quel nome avrà. Così per Caterina.

ORTENSIO - (Tra sé)
Forza Petruccio, hai in mano la partita!

PETRUCCIO - Va bene, allora proseguiamo pure.
È così che ha da correre la boccia:
dritta, senza deviare d’un tantino
dall’effetto.(91) Ma qui viene qualcuno.

Entra il vero VINCENZO, in abito da viaggio
(A Vincenzo)
Buondì, gentil signora. Siete in viaggio?(92)
Dimmi, Katina mia,
ma dimmelo in tutta verità,
hai mai visto più fresca e giovanile
gentildonna? Un contrasto di bianco e di carminio
come quello che ha sulle sue gote?
E quali stelle trapuntano il cielo
con la luce che dalle sue pupille
illumina quel viso celestiale?
O deliziosa, amabile fanciulla,
buongiorno ancora a te.
Dolce Katina, abbracciala, ti prego,
in omaggio a siffatta venustà!

ORTENSIO - (A parte)
Farà ammattir quell’uomo,
col fargli credere d’esser donna.

CATERINA - (A Vincenzo)
O virgineo bocciolo di fanciulla,
vaga, fresca, soave!
Dove corri? Dov’è la tua dimora?
Felici i padri di sì bella figlia!
Ma più felice l’uomo
cui le stelle benigne han destinato
te sua soave compagna di letto!

PETRUCCIO - Ohi, ohi, Katina, beh, che ti succede?
Non avrai mica, spero, le traveggole.
Ma questo è un uomo, vecchio, raggrinzito,
rugoso, affievolito dall’età,
non già la verginella che tu dici!

CATERINA - (A Vincenzo)
Perdonate l’errore dei miei occhi,
vecchio padre, son tanto abbarbagliati
dal sole, che mi sembra tutto verde
quello che vedono. Ora m’accorgo
che siete un venerabile vegliardo.
Vogliate perdonare, ve ne prego,
il mio stupido errore.

PETRUCCIO - Perdonatela,
buon vecchio nonno, e diteci, di grazia,
verso qual luogo voi siete diretto;
perché se è la stessa nostra strada,
saremo lieti d’avervi a compagno.

VINCENZO - Mio gentile signore,
e voi, signora, di sì allegro umore,
che m’avete lasciato assai stupito
al momento del nostro primo incontro,
il mio nome è Vincenzo,
abito a Pisa, e mi dirigo a Padova
per andare a trovare un mio figliolo
che non ho più rivisto da gran tempo.

PETRUCCIO - Come si chiama?

VINCENZO - Lucenzio, signore.

PETRUCCIO - Felice incontro; e tanto più felice
per voi, per merito di vostro figlio,
ond’io ora per legge,
e non soltanto per la vostra età
veneranda, posso chiamarvi padre.
La sorella di questa gentildonna,
ch’è mia moglie, a quest’ora è già sposata
con vostro figlio. Non vi meravigli
ciò, né vi sia motivo di afflizione,
ché la ragazza è degna d’ogni stima,
ha ricca dote e nobili natali;
è inoltre adorna di tante virtù
da poter aspirare d’andar sposa
a qualsivoglia degno cavaliere.
Lasciate ch’io v’abbracci,
vecchio Vincenzo, e proseguiamo insieme
ad incontrare il bravo vostro figlio,
che accoglierà con gioia il vostro arrivo.

VINCENZO - Ma è vero tutto questo,
o voi state scherzando, come è vezzo
in seno alle gioconde comitive,
quando s’incontra qualcuno per via
e s’invita a viaggiare insieme a loro?

ORTENSIO - No, v’assicuro, padre,(93) è tutto vero.

PETRUCCIO - Venite, accompagnatevi con noi,
e lo constaterete coi vostri occhi.
Capisco: il nostro scherzo di poc’anzi
v’ha reso giustamente sospettoso.

(Escono tutti, tranne Ortensio)

ORTENSIO - Bene, Petruccio. Il tuo insegnamento
m’ha rincuorato. Sposo la mia vedova!
E se sarà bisbetica,
tu sarai stato buon maestro a Ortensio
sulla maniera da usare con lei.

(Esce)
ATTO QUINTO


SCENA I - Padova, davanti alla casa di Lucenzio.
Entrano BIONDELLO, LUCENZIO e BIANCA
BIONDELLO - Presto, presto, signore, ed in silenzio!
Il prete è là che aspetta.

LUCENZIO - Ho l’ali ai piedi.
Biondello, è meglio che tu torni a casa.
Possono aver bisogno là di te.

(Esce con Bianca)
BIONDELLO - Eh, no. Voglio vedervi prima in chiesa,
poi scappo subito dal mio padrone.

(Esce)

Entra GREMIO

GREMIO - Strano che Cambio ancora non si vede,
è già parecchio tempo che l’aspetto…

Entrano PETRUCCIO, CATERINA, VINCENZO, GRUMIO e servi di Petruccio

PETRUCCIO - Lucenzio abita qui, questa è la porta.
La casa di mio suocero è più avanti,
di là, verso la piazza del mercato.
Io debbo andare là,
e pertanto vi lascio qui, signore.

VINCENZO - Però prima che andiate,
s’ha da bere un bicchiere in compagnia.
Sarò padrone, penso, di ricevervi
qui come a casa mia; anche perché
ci sarà ben da stare in allegria.

(Bussa)
GREMIO - Ci sarà gran daffare dentro casa.
Farete bene a bussare più forte.

Vincenzo bussa più forte.
S’affaccia a una finestra il PEDANTE
PEDANTE - Chi è che bussa da sfondar la porta?

VINCENZO - Per favore, il signor Lucenzio è in casa?

PEDANTE - C’è, signore, ma non si può parlargli.

VINCENZO - Neanche se qualcuno gli portasse
diciamo un centinaio di sterline
o anche due, per stare in allegria?

PEDANTE - Tenetele, lui non ne avrà bisogno,
e non ne avrà finch’io viva e respiri.

PETRUCCIO - (A Vincenzo)
Eh, vostro figlio, ve l’avevo detto,
a Padova è molto benvoluto
(Al Pedante)
Sentite un po’, brav’uomo: scherzi a parte,
dite al signor Lucenzio, per favore,
ch’è testé giunto da Pisa suo padre,
ed è qui alla porta per parlargli.

PEDANTE - Tu menti. Il padre è venuto da Mantova,(94)
e ti guarda ora qui dalla finestra.

VINCENZO - Intendi tu? Saresti tu suo padre?

PEDANTE - Sì, signore, così dice sua madre,
se debbo crederle.

PETRUCCIO - Ehi, ehi, messere,
che razza di furfanteria è questa,
prendersi il nome di un’altra persona?

PEDANTE - Acciuffate il gaglioffo! Quello lì
ho paura che sotto il nome mio
vuol truffare qualcuno qui in città.

Entra BIONDELLO

BIONDELLO - Li ho visti in chiesa, insieme tutti e due.
Che Dio li faccia veleggiar felici!
(A parte)
Ma chi vedo ora qui? Messer Vincenzo,
il mio vecchio padrone! Siamo fritti!
Anzi, polverizzati addirittura!

VINCENZO - (A Biondello)
Ehi, pendaglio da forca, vieni qua.

BIONDELLO - (Fingendo di non riconoscerlo)
Se mi gira, signore.(95)

VINCENZO - Vieni qua,
manigoldo. Che! Non mi riconosci?

BIONDELLO - Riconoscervi, io? Come potrei,
signore, se non v’ho mai conosciuto
in vita mia?(96)

VINCENZO - Che dici, furfantaccio?
Non ha mai conosciuto tu Vincenzo,
il padre di Lucenzio, il tuo padrone?

BIONDELLO - Chi, il mio vecchio padrone venerato?
Diamine, sì, signore. Eccolo là,
lo vedete affacciato alla finestra.

VINCENZO - Ah, sì? È così, bastardo?
(Lo percuote)

BIONDELLO - Aiuto, aiuto!
Un pazzo qui mi vuole assassinare!

PEDANTE - (Ritirandosi dalla finestra e gridando dentro)
Aiuto, figlio! Aiuto, ser Battista!

PETRUCCIO - Katina, noi facciamoci da parte,
stiamo a vedere come va a finire.

(Si fanno da un canto)
Dalla porta della casa di Lucenzio escono il PEDANTE, TRANIO, BATTISTA e alcuni servi
TRANIO - (A Vincenzo)
Chi siete voi, signore,
per osar di picchiare i miei domestici?

VINCENZO - Chi sono io? Chi siete voi, piuttosto!
Dèi immortali, che fior di canaglia!
Giubba di seta, braghe di velluto,
mantello rosso e copricapo a punta!
Oh, miseria, son proprio rovinato!
Io faccio il buon massaro dei miei beni
a casa mia, e mio figlio e il mio servo
scialacquan tutto all’università!

TRANIO - Insomma, che vi prende?

BATTISTA - Che! Quest’uomo non sarà mica pazzo?

TRANIO - Signore, voi sembrate, dall’aspetto,
un misurato anziano gentiluomo,
ma parlate come se foste un pazzo.
Che può importarvi s’io mi porto addosso
e perle e oro? Ringrazio mio padre,
se mi posso permetter questi lussi.

VINCENZO - Tuo padre?… Oh, gran canaglia!
Tuo padre fabbrica tela per vele
a Bergamo.

TRANIO - Signore, vi sbagliate,
vi sbagliate signore! E allora dite,
conoscereste per caso il suo nome?

VINCENZO - Il nome suo? E vuoi che non lo sappia,
se l’ho allevato dentro casa mia
da che aveva tre anni? Il nome è Tranio.

PEDANTE - Ma via, andate via, asino pazzo!
Il suo nome è Lucenzio, ed è mio figlio,
e l’erede di tutte le mie terre,
di me che sono suo padre Vincenzo.

VINCENZO - Lucenzio? Oh, vuoi vedere che costui
allora ha assassinato il suo padrone?
Oh, arrestatelo, in nome del Doge,
ve l’ordino!… Lucenzio, figlio mio!
Canaglia, dimmi, dove sta mio figlio?

TRANIO - (A un servo)
Va’, fa’ venire subito una guardia.
(Il servo esce e rientra subito con una guardia)
(Alla guardia)
Trascinate in prigione questo pazzo.
Babbo Battista, provvedete voi
a che sia processato.

VINCENZO - Trascinarmi in prigione?!…

GREMIO - Fermo, guardia!(97)
In prigione quest’uomo non ci va!

BATTISTA - Signor Gremio, badate ai fatti vostri.
Ci va in prigione, ve lo dico io.

GREMIO - Badate voi, piuttosto, ser Battista,
a non farvi impigliare in questa rete.
Sarei pronto a giurare
che quest’uomo è Vincenzo, quello vero.

PEDANTE - Ebbene giuralo, se n’hai il coraggio.
GREMIO - Giurarlo proprio, no, ma…

TRANIO - Ma e ma…
tanto varrebbe sostenere allora
ch’io non sono Lucenzio.

GREMIO - Giusto, giusto,
infatti so che voi siete Lucenzio.

TRANIO - Insomma, via questo rimbecillito,
in prigione!

Entrano BIONDELLO, LUCENZIO e BIANCA
VINCENZO - Mostruosi mascalzoni!
È così che si tratta un forestiero
da queste parti: offeso ed angariato!

BIONDELLO - Oh, siamo rovinati, quello(98) è là:
rinnegatelo, dite in faccia a lui
che mai l’avete visto e conosciuto,
altrimenti per noi non c’è più scampo.

LUCENZIO - (Inginocchiandosi a Battista)
Padre mio, perdonatemi.

VINCENZO - (A parte)
Mio figlio!
Il mio caro Lucenzio! Dunque è vivo.

(Biondello, Tranio e il Pedante scappano)
BIANCA - (Inginocchiandosi anch’ella a Battista)
Perdono, padre mio!

BATTISTA - Perché l’hai fatto?
Dov’è Lucenzio?

LUCENZIO - Lucenzio son io,
il vero figlio del vero Vincenzo;
io, che con regolare matrimonio,
ho fatto mia tua figlia,
mentre falsi suppositi(99)
ti gettavan la polvere negli occhi.

GREMIO - Ecco allora svelata la congiura
che ci ha messi nel sacco tutti quanti!

VINCENZO - Dove sta quel dannato manigoldo,
quel Tranio, che con tanta sicumera
ha osato farsi innanzi a me e sfidarmi?

BATTISTA - (Osservando Lucenzio)
Ma questo, ditemi, non è il mio Cambio?

BIANCA - S’è mutato in Lucenzio il vostro Cambio.

LUCENZIO - Sono i miracoli che fa l’amore.
È stato infatti l’amor mio per Bianca
a suggerirmi di scambiar con Tranio
il mio stato, così ch’egli in città
passasse ufficialmente per Lucenzio
fino a tanto ch’io fossi riuscito
ad approdare al desiato porto
della felicità. Per tal motivo
tutto quello che Tranio può aver fatto,
l’ha fatto solamente per mio ordine;
perciò, diletto padre,
per amor mio vogliate perdonarlo.

VINCENZO - Però strapperò il naso a quel furfante
che mi voleva mandare in prigione.

BATTISTA - (A Lucenzio)
Ma, dite un po’, signore,
avreste dunque sposata mia figlia
senza curarvi s’io fossi d’accordo?

VINCENZO - Signor Battista, via, non ci pensate,
Sarete soddisfatto anche di questo.
Ma ora voglio entrare dentro in casa
a punirli di questa malefatta.

BATTISTA - Ed io vi seguo. Voglio andare in fondo
a questa maledetta canagliata.

(Escono entrando nella casa di Lucenzio)

LUCENZIO - Bianca, mia cara, non aver timore:
tuo padre smetterà quel piglio duro.

(Escono Lucenzio e Bianca)
GREMIO - Il mio pasticcio ha lievitato male.
Ma non importa; entro anch’io con gli altri,
se avrò perduto tutte le speranze,
mi resta almeno un posto nel banchetto.

(Esce)

CATERINA - Seguiamoli, marito, son curiosa
di vedere in che modo andrà a finire
tutto questo trambusto.

PETRUCCIO - Prima un bacio, Katina, e poi entriamo.

CATERINA - Così, in mezzo alla strada?

PETRUCCIO - Non ti vergognerai mica di me!

CATERINA - Non di te, mio signore, Dio mi guardi!
Mi vergogno soltanto di baciarti.

PETRUCCIO - Va bene, allora si ritorna a casa.
(A Grumio)
Compare, su, rimettiamoci in viaggio.

CATERINA - No, no, ti darò un bacio.
Ma ti prego, amor mio, restiamo qui.
(Lo abbraccia e lo bacia)

PETRUCCIO - Non è stupendo?… Mia dolce Katina,
andiamo. Meglio una volta che mai,
e in amore non è mai troppo tardi.

(Escono)
SCENA II - Padova, in casa di Lucenzio.
Tavola imbandita. Entrano BATTISTA, VINCENZO, GREMIO, il PEDANTE, BIANCA, PETRUCCIO, CATERINA, ORTENSIO con la sua VEDOVA, TRANIO, BIONDELLO, GRUMIO e servi
LUCENZIO - Seppur dopo gran tempo,
s’accordano i nostri disaccordi.
Superata la furia della guerra,
arriva sempre l’ora,
in cui si può mirare sorridendo
ai pericoli cui siamo scampati
e ai mali che ci siam lasciati dietro.
Bianca mia bella, da’ il tuo benvenuto
a mio padre, mentr’io saluto il tuo
con pari affetto e pari cortesia.
A tutti gli altri, fratello Petruccio,
sorella Caterina, a te, Ortensio,
con la tua amorosa vedovella,
un caldo benvenuto in casa mia,
e godetevi al meglio questa festa.
La mia cena è modesta,
fatta tanto per chiudere lo stomaco
dopo il grande banchetto di stamane.(100)
Ma favorite a tavola, vi prego,
anche se questa volta ci sediamo
per conversare più che per mangiare.

PETRUCCIO - Nient’altro che sedere, e poi sedere,
mangiare e poi mangiare!

BATTISTA - Questa è Padova,
figlio Petruccio, tutta cortesia.

PETRUCCIO - Padova offre solo cortesia.

ORTENSIO - E speriamo, per la fortuna nostra,
che ciò sia vero pure per noi due.

PETRUCCIO - Ehilà, per la mia vita! Il mio Ortensio
ha paura della sua vedovella.

VEDOVA - Allora se per caso fossi io
ad avere paura, non credetemi.

PETRUCCIO - Siete molto assennata,
ma forse non avete còlto bene
il senso delle mie parole: ho detto
che il nostro Ortensio ha paura di voi.

VEDOVA - Chi soffre il capogiro
si crede che a girare sia la terra.

PETRUCCIO - Ben “rigirata”!

CATERINA - In che senso, signora?

VEDOVA - In quello che m’ha fatto concepire
vostro marito.

PETRUCCIO - Io, farla concepire?(101)
Come può ciò far piacere ad Ortensio?

ORTENSIO - Quello che vuol intender la mia vedova
è ch’ella concepisce in questo modo
quello che tu hai detto.

PETRUCCIO - Rimediata assai bene pure questa!
Baciatelo per questo, buona vedova.

CATERINA - …“chi soffre il capogiro
si crede che a girare sia la terra”…
Era questa la frase
di cui vorrei che mi spiegaste il senso.

VEDOVA - È presto detto: che vostro marito,
tribolato com’è da una bisbetica,
misura dalla sua tribolazione
quella di mio marito. Tutto qui.

CATERINA - Una frase di senso ben meschino.

VEDOVA - Dicendola pensavo infatti a voi.

CATERINA - E davvero io sono ben meschina
a trattarvi con tanta deferenza.

PETRUCCIO - Dalle addosso, Katina!

ORTENSIO - Forza, moglie!

PETRUCCIO - Scommetto cento marchi
che la mia Kate se la mette sotto!

ORTENSIO - Questo è solo affar mio.

PETRUCCIO - Parlato da ufficiale. A te, ragazzo!
(Alza il bicchiere e beve alla salute di Ortensio)
BATTISTA - Ebbene, signor Gremio, che ne dite
di questa gente dall’arguzia pronta?

GREMIO - Si tengon bene testa, a quanto pare.

BIANCA - Testa e coda. Chi fosse un po’ maligno
direbbe che per voi
testa e coda sarebbe testa e corna.

VINCENZO - Ehi, là, signora sposa,
tutto questo v’ha dunque risvegliata?

BIANCA - Risvegliata, ma non impaurita;
e perciò m’addormenterò di nuovo.

PETRUCCIO - No, questo non dovete.
Dal momento che avete cominciato,
voglio spararvi anch’io a bruciapelo
uno o due colpettini di facezie.

BIANCA - E che! Son diventata un uccellino?
Allora volerò da un ramo all’altro,
e voi inseguitemi con l’arco teso,
e buona notte a tutti!

(Esce con Caterina e la Vedova)

PETRUCCIO - M’è scappata!
Signor Tranio, era questo l’uccellino
che puntavate sulla vostra mira,
e che avete mancato. E allora un brindisi
alla salute di quanti han scoccato
il loro dardo e mancato il bersaglio!

TRANIO - La verità, signore, è che Lucenzio
m’ha sguinzagliato come un suo levriero,
che corre, sì, qua e là con le sue zampe,
ma raccoglie la preda del padrone.

PETRUCCIO - Ottimo paragone, e pertinente,
se pur troppo cagnesco.

TRANIO - Voi invece, signore, buon per voi,
avete ben cacciato per voi stesso,
pur se la cerva da voi catturata
sa ben tenere a bada il suo segugio.

BATTISTA - Ohi, ohi, Petruccio, Tranio v’ha colpito!

LUCENZIO - Bravo, Tranio! Bel colpo, ti ringrazio.

ORTENSIO - (A Petruccio)
Dài, confessalo, t’ha colpito bene.

PETRUCCIO - Sì, lo ammetto, un graffietto me l’ha fatto.
Però scommetto dieci contro uno
che il frizzo è rimbalzato via da me
e v’ha colti di sbieco tutti e due.

BATTISTA - Petruccio, figlio mio, mi spiace dirlo
ma penso proprio che la più bisbetica
te la sei presa tu.

PETRUCCIO - Ma no, scommetto che non è così!
E per convincervi di quel che dico,
ciascuno di noi tre mandi a chiamare
la propria moglie: quello la cui moglie
per prima avrà obbedito alla chiamata,
vincerà la scommessa. Vi sta bene?

ORTENSIO - Ci sto. Quanto la posta?

LUCENZIO - Facciamo venti corone?

PETRUCCIO - Che venti!
Manco se si trattasse di scommettere
sul mio falcone oppure sul mio cane!
Per mia moglie, signori, io sono pronto
a scommettere venti volte tanto.

LUCENZIO - Allora cento?

ORTENSIO - Va bene.

PETRUCCIO - D’accordo.

Affare fatto.

ORTENSIO - Chi comincia?

LUCENZIO - Io.
Biondello, va’ a chiamar la tua padrona.
Che venga qui immediatamente.

BIONDELLO - Vado.

(Esce)
BATTISTA - (A Lucenzio)
Scommetto anch’io metà e metà con voi,
figlio caro, che Bianca viene subito.

LUCENZIO - No, no, non faccio a metà con nessuno.
Voglio puntar da solo, su mia moglie.

Rientra BIONDELLO
Ebbene, allora?…

BIONDELLO - La vostra signora
vi manda dire che ora ha il suo daffare,
e che non può venire.

PETRUCCIO - “Il suo daffare…”?
Non può venire? Che risposta è questa?

GREMIO - Una risposta, e per di più garbata,
signor Petruccio. E voi pregate Iddio
che vostra moglie non vi mandi a dire
di peggio di così.

PETRUCCIO - Di meglio, spero.

ORTENSIO - Biondello, va’ e supplica mia moglie
di venir qui.

PETRUCCIO - Ohibò, siamo alle suppliche?
Per forza allora che dovrà venire!

ORTENSIO - Ho paura però che con tua moglie,
per quanto tu la possa supplicare,
non ti servirà a niente, caro mio.

Rientra BIONDELLO
Beh, mia moglie dov’è?

BIONDELLO - Dice che voi scherzate. Non verrà.
Vi chiede invece d’andar voi da lei.

PETRUCCIO - Peggio che peggio, allora non verrà!
Ma tutto questo è vile, intollerabile,
da non potersi proprio sopportare!
Grumio, va’ tu dalla padrona tua,
dille ch’io le comando di venire.

(Esce Grumio)

ORTENSIO - So già la sua risposta.

PETRUCCIO - Ossia?

ORTENSIO - Non viene.

PETRUCCIO - Tanto peggio per me. Partita chiusa.

Entra CATERINA
BATTISTA - Ehi, Vergine santissima!
Ecco che viene invece Caterina!
CATERINA - Il mio signore m’ha fatto chiamare?
Che desidera?

PETRUCCIO - E tua sorella Bianca?
E la moglie di Ortensio? Dove sono?

CATERINA - In salotto, davanti al caminetto,
a conversar tra loro.

PETRUCCIO - Valle a chiamare e falle venir qui.
Se rifiutano, prendile a frustate
e trascinale qui dai lor mariti
(Esce Caterina)

LUCENZIO - Poi si dice i miracoli!
Se ce n’è uno, è questo.

ORTENSIO - È proprio vero.
E mi chiedo che possa presagire.

PETRUCCIO - Ebbene presagisce pace e amore,
vita tranquilla, osservanza dell’ordine
e della maritale autorità,
ed insomma nient’altro che non sia
fonte di gioia e di felicità.

BATTISTA - E allora scenda su di te, Petruccio,
ogni fortuna. Hai vinto la scommessa.
Ed io aggiungerò alla loro posta
da parte mia ventimila corone,
un’altra dote per un’altra figlia,
poiché ella è cambiata,
ed è tutt’altra da quella che era.

PETRUCCIO - No, no, io voglio vincere ad usura
la mia scommessa, e fornirvi altri segni
della sua obbedienza, una virtù
novellamente da lei acquisita,
e della piena sua sottomissione.

Entra CATERINA con BIANCA e la VEDOVA

Eccola qua, guardatela,
vi riporta le riottose mogli,
come se fossero due prigioniere
della sua femminile persuasione.
Caterina, però quel tuo cappello
non ti sta bene. Getta via quel ciaffo!
Mettilo sotto i piedi!

(Caterina si toglie il cappello, lo getta a terra e lo calpesta)

VEDOVA - Signore Iddio, fa’ ch’io non abbia mai
altra cagione per cui sospirare
nella vita, fin quando sia ridotta
a un tale stato di sciocca obbedienza!

BIANCA - Vergine Santa! Quale nome dare
ad una sì balorda soggezione?
LUCENZIO - Fosse stata la tua così balorda!
La saggezza dell’obbedienza tua,
m’è già costata, dall’ora di cena,
cento buone corone, bella Bianca!

BIANCA - Balordo tu, che hai voluto puntarle
sulla mia obbedienza.

PETRUCCIO - Caterina, te l’ordino, di’ tu
a queste donne dalla testa dura
quali sono i doveri d’obbedienza
versi i loro mariti.

VEDOVA - Andiamo, andiamo, non vogliamo prediche!
Scherziamo?

PETRUCCIO - (A Caterina)
Avanti, e comincia da lei.

VEDOVA - Nemmen per sogno!

PETRUCCIO - Sì, proprio da voi
dico invece che deve cominciare.

CATERINA - (Alla Vedova)
Vergognati! Vergognati!
Spiana quella tua fronte corrucciata,
cessa di dardeggiare dai tuoi occhi
sdegnosi sguardi a ferire il tuo sposo,
il tuo signore, il tuo governatore,
il tuo re! Questo modo tuo di fare
macchia la tua bellezza,
come mordono i geli i verdi prati,
e rovina la tua reputazione
come rovinano a primavera
i forti venti i teneri germogli
e non è cosa bella né gentile.
Una donna invasata dalla collera
è simile a una fonte intorbidita,
fangosa, sporca, ripugnante, viscida,
priva d’ogni attrattiva, d’ogni fascino,
cui nessun uomo, per quanto assetato,
si guarderà di accostare le labbra,
o di toccare soltanto una goccia.
L’uomo ch’è tuo marito è il tuo signore,
il tuo custode, la tua stessa vita,
il tuo capo, il tuo re; egli per te,
per la tua cura e il tuo mantenimento
non esita ad esporre il proprio corpo
alle fatiche, in mare come in terra,
a vegliar tra la furia d’uragani,
a restar giorni interi in mezzo al gelo
perché tu te ne stia, salva e sicura,
al buon tepore dentro la tua casa:
da te non esigendo altro tributo
che un po’ d’amore, un viso sorridente
e un’obbedienza convinta e sincera:
assai modesta paga, in verità,
per una sì cospicua obbligazione.
Ogni donna dovrebbe a suo marito
ossequio non diverso
di quel che deve un suddito al suo principe
Se invece ella è testarda, pervicace,
scontrosa, arcigna, acida, riottosa,
disobbediente agli onesti doveri,
che altro è se non una ribelle,
contestatrice stolta, traditrice
dell’amoroso suo sposo e signore?
Provo vergogna io stessa
a veder quanto sciocche sian le donne
a cercare la guerra proprio là
dove dovrebbero cercar la pace,
a brigare per voler dettar legge,
aver supremazia, spadroneggiare,
quando invece son fatte da natura
per amare, servire ed obbedire.
Altrimenti, perché il nostro corpo
sarebbe così delicato e fragile,
e così poco adatto a sopportare
le fatiche ed i triboli del mondo,
se non al fine che la forma esterna
s’armonizzi con la fragilità
del nostro stato e con il nostro cuore?
Su, su, vermi testardi ed incapaci,
come la vostra è stata un tempo grande
la mia protervia, è stato come il vostro
ambizioso il mio cuore
e più del cuore forse l’intelletto,
da farmi sempre pronta a rimbeccare
a parola parola, grinta a grinta.
Ora m’avvedo quanto sian di paglia
le nostre lance, e come paglia deboli
siano le nostre forze, e fragilissima
sia la nostra fragilità di donna,
talché se pur sembriamo valer molto,
in realtà non valiamo un bel niente.
Piegate dunque la vostra alterezza,
ché tanto non vi servirebbe a niente,
e mettete le mani sotto i piedi
del vostro sposo. A quest’atto d’ossequio
la mano mia è pronta,
e a fare quel che lui mi chiederà.

PETRUCCIO - Oh, che brava ragazza!
Vieni, mia Caterina, dammi un bacio.

LUCENZIO - Bene, cammina pur per la tua strada,
vecchio mio, ché ella è tutta tua!

VINCENZO - Fa certo un bel sentire
i figli quando son così affettuosi.

LUCENZIO - Per quanto sia sgradevole sentire
le donne quando sono litigiose

PETRUCCIO - Vieni Katina, andiamocene a nanna.
(A Lucenzio e Ortensio)
Qui siamo tre sposati,
pur se voialtri due siete spacciati.
Perché son io che ho vinto la scommessa,
(A Lucenzio)
pur se sei stato tu a coprire il bianco.(102)
E, da buon vincitore,
spero che Iddio ti dia la buona notte.

(Esce con Caterina)
ORTENSIO - Ebbene, vattene per la tua strada,
ché sei riuscito ad addomesticare
un diavolo di femmina bisbetica!

LUCENZIO - Ed in che modo! Con licenza vostra,
questo davvero può dirsi un miracolo!


FINE
APPENDICE
Si riproducono le ultime battute della commedia di autore ignoto “The Taming of a Shrew” (v. la “Nota introduttiva”) volgendola in italiano dal testo riportato da G. Wells & G. Taylor nella loro edizione dell’“Oxford Shakespeare”(cit.).
SCENA XIII - ……….
Entrano due uomini trasportando LENZA addormentato, vestito nuovamente dei suoi vecchi abiti, lo depositano nel luogo dove l’avevano trovato, ed escono.
Entra lo SGUATTERO

SGUATTERO - Or che l’oscura notte se n’è andata
e nel ciel di cristallo appare l’alba,
debbo affrettarmi a tornare al lavoro.
(Vede Lenza)
Un momento, chi è questo?… Che stranezza!
Lenza ha passato qui tutta la notte?
Ah, lo devo svegliare.
Questo sarebbe già morto di fame,
a quest’ora, se non avesse avuto
pieno il ventre di birra. Lenza, sveglia!
Dormir fino a quest’ora! Che vergogna!

LENZA - (Svegliandosi)
Amico, dammi ancora un po’ di vino.
Che! I commedianti se ne sono andati?
Ed io chi sono qui,
non sono più un nobile signore?

SGUATTERO - Un nobile signore un accidenti!(103)
Su, su, non sarai mica ancora sbronzo?

LENZA - Chi sei, lo sguattero? Perdìo, ragazzo,
stanotte ho fatto il sogno più gagliardo
che tu ti possa mai immaginare,
vivessi pur cent’anni. Sta’ a sentire…

SGUATTERO - Eh, ma faresti meglio a ritirarti,
ché tua moglie ti striglierà a dovere
per esserti attardato qui a sognare
per tutta questa notte.

LENZA - Che! Mia moglie?
Adesso so come addomesticarla,
una bisbetica di quella fatta!
Tutto stanotte, fino a poco fa,
sono stato a sognare in qual maniera,
e tu mi sei venuto a ridestare
dal più bel sogno fatto in vita mia.
Ma ci andrò da mia moglie, adesso, subito,
e metterò giudizio pure a lei,
se mai le passi di trattarmi male.

SGUATTERO - Allora aspetta, Lenza, vengo anch’io
a casa tua: mi prude di sentire
il seguito del sogno di stanotte.




FINE

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